di Fabrizio Annaro
Era dicembre del 1971 quando mio padre mi portò in piazza Duomo a Milano per assistere al comizio di Enrico Berlinguer allora vice segretario del Pci. Avevo 12 anni e rimasi profondamente colpito dalle parole pronunciate e scandite con quell’accento sardo che avevano l’effetto di trasformare quelle frasi sino a renderle ancora più incisive e penetranti.
Berlinguer è stato un giusto, un uomo che aveva sposato la virtù, la sobrietà, l’onesta, l’amore per la giustizia. Il suo fascino aveva conquistato la coscienza di molti, l’ammirazione anche degli avversari. Concepiva la politica come un servizio alla comunità. Era convinto che la classe dirigente dovesse dare l’esempio in modo che le masse emulassero i comportamenti onesti e virtuosi.
Un suo collaboratore, di cui non svelo il nome, che per parecchi anni è stato a fianco di Berlinguer, amava raccontare la serietà del leader del Pci, il rifiuto di godere di privilegi, la rinuncia alla mondanità. Lo dipingeva come una persona dedita al suo lavoro, preoccupato di offrire un futuro migliore ai suoi compagni, anzitutto agli operai. In gioventù aveva conosciuto la guerra e il carcere, a causa della sua militanza antifascista, guerra e carcere esperienze comuni a molti uomini politici degli anni ’70.
Credo che molti italiani, che hanno vissuto quel periodo, ricordino Berlinguer come uomo in grado di parlare direttamente alla coscienza, di suscitare sentimenti anche contrastanti, dissensi o altro, ma sempre con grande rispetto e ammirazione.
Oggi ci sentiamo più poveri perché leader di questa statura se ne incontrano sempre meno o forse sono estinti. L’impegno politico inteso come lo concepiva Berlinguer non esiste più, è passato di moda.
A volte mi domando come mai Berlinguer, dopo aver rinnovato profondamente il Pci, sino a fondare l’Eurocomunismo, non abbia portato sino in fondo questo processo e cioè non sia riuscito a promuovere un nuovo partito che preso atto della crisi del comunismo si dedicasse alle questioni sociali e del lavoro.