di Ilaria Gelosa e Camilla Mantegazza
Amava definirsi un “valent’homo” ma la storia, intrisa di leggenda, ha creato intorno a Michelangelo Merisi, noto universalmente come Caravaggio, una figura tutt’altro che immacolata: l’omicidio di Ranuccio Tommasoni, consumato a Roma nel maggio del 1606, così come l’assassinio milanese –mai provato- del quale lo accusava il biografo Girolamo Mancini, aiutano a confermare tale ipotesi. E la situazione si aggrava notevolmente, se si pensa al ferimento del notaio Mariano Pasqualone, forse innamorato della sua Lena o ancora alle spese matte ai dadi, ai litigi e alle sassate per strada.
Eppure, se nella sua condotta quotidiana non appare come un rigoroso servo di Cristo, non si può dire lo stesso per ciò che le sue opere rappresentano e che, per un’artista, altro non sono che l’emblema della vita stessa. Ne “La vocazione di San Matteo”, assurgendo ad esempio un noto capolavoro, Caravaggio riunisce intorno ad un banco di gabelliere dei moderni Cristo, San Pietro e San Matteo raffigurando la chiamata all’apostolato di quest’ultimo, all’interno di un umile locanda, resa viva da semplici e quotidiani gesti immersi in una fitta penombra tagliata da squarci di luce bianca che magnetizzano lo sguardo dello spettatore.
E ancora, intriso di cristianità e di redenzione, al cui il Caravaggio tendeva, è il dipinto ritenuto per secoli perduto e conservato presso la National Gallery di Dublino: “La presa di Cristo” -più comunemente conosciuto come “il Bacio di Giuda”- rappresentante l’espressione impassibile e ferma del Cristo davanti ad un’azione schiacciante di Giuda, che rende visibile il famoso inganno di grande realismo. Peraltro l’artista, utilizzando una tecnica che per sempre varrà come autentica firma, tende a rendere le teste dei soggetti l’unico perno visibile sulla tela stabilendo un’esclusiva composizione, mentre il buio dell’ambientazione risalta quella che sarebbe la sua stessa personificazione. Nel quadro, infine, quasi per sottolineare la sua profonda e convinta cristianità, la lanterna retta dallo stesso Caravaggio propone la sua ennesima ricerca di redenzione attraverso il mistero della fede.
Difficile non citare il dipinto “Davide con la testa di Golia” che fu la più grande presa di posizione di Michelangelo Merisi a favore delle ferme virtù che trionfano sul male. Il suo status è suggerito, oltre che dal tripudio sulla morte, anche dall’atto di contrizione sulla lama che il giovane, nel quadro, stringe in pugno, in cui ci sono incise le lettere: “H-AS-OS”, “Humilitas Occidit Superbian” (l’umiltà uccide la superbia).
Ma sono i dipinti che non richiamano direttamente a Cristo quelli più interessanti: si pensi alla “Canestra”, al “Ragazzo con il Cesto di Frutta” o ancora al “Suonatore di Liuto”. In tutte le tele, infatti, appare una costante non sottovalutabile, nonostante per decenni non sia stata capita e, di conseguenza, poco considerata: la frutta. Infatti, nel Cinquecento, l’Eucarestia è «Charitas» e «Fructus». I testi del Concilio Tridentino associano il Santissimo sacramento all’ammirabile frutto: l’Eucarestia, Cristo, è frutto di Dio agli uomini. E qui, ancora una volta, la fede ne esce valorizzata, carica di significato, completa e indissolubile. Mai in nessun quadro caravaggesco Cristo è assente. Lo stesso, però, non lo si può forse dire della sua vita.
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