Il 30 ottobre 1983 era domenica e in Argentina si aprivano le urne per le prime elezioni presidenziali dal 1973. In mezzo c’erano stati gli anni della dittatura militare (iniziata il marzo del 1976), la scomparsa di un’intera generazione di oppositori al regime (i “desaparecidos”), l’inizio della svendita dei beni dello Stato, la disarticolazione del sindacato e di ogni istanza di rappresentanza democratica, la folle guerra contro la Gran Bretagna per il recupero delle Isole Malvinas.
I candidati con possibilità di vincere erano gli esponenti dei due partiti storici argentini, peronisti e radicali. Ma gli uomini, i programmi, le aspirazioni molto diverse. Il candidato peronista Italo Argentino Luder, già presidente del Senato e Presidente provvisorio dell’Argentina durante i convulsi mesi del 1975 prima del colpo di Stato, era sostenuto dai settori del sindacato corporativo e corrotto, compromesso con la dittatura e da un partito nel quale si annidavano settori estremisti di destra e sinistra che fino agli anni ’70 si erano combattuti a colpi di arma da fuoco.
L’altro candidato, l’avvocato Raul Alfonsin era stato il leader storico dell’ala socialdemocratica dell’Unione Civica Radicale (il secondo partito più antico dell’America Latina). Alfonsin era stato l’unico politico a rifiutare l’invito dei militari a recarsi nelle isole Malvinas “liberate”, negando di avvallare l’operato dalla dittatura. La sua piattaforma era quella della giustizia sui desaparecidos e della giustizia sociale. Già in campagna elettorale era il candidato più popolare e rimasero nella storia le chiusure dei suoi comizi che recitavano il preambolo della Costituzione. Un “integralista” della democrazia che prometteva il suo ripristino a un popolo assettato di libertà.
Il responso delle urne fu chiaro e netto, Alfonsin divenne presidente degli argentini con il 51,75% dei voti espressi, sconfiggendo per la prima volta, da quando era nato, il Partito che fu di Peron.
I primi momenti furono di euforia, di rimozione della cappa della censura, di ritorni degli esuli più famosi, di aperture dei processi contro i militari genocidi, gli unici mai celebrati in America Latina. Ma i militari non erano stati sconfitti ancora e per due volte si rischiò il ritorno al passato, oltre allo stop della giustizia sui crimini della dittatura.
Nei seguenti 31 anni, in Argentina arrivarono le ricette neoliberali, la svendita di ogni bene di Stato, la crisi economica, il default, la miseria, ma anche la rinascita e la speranza.
Una sola cosa non è mai stata messa in discussione ed è stata la democrazia. Nessuno ha mai più pensato che un colpo di Stato potesse risolvere i problemi del paese, nemmeno nei momenti più difficili. Alfonsin amava dire “in democrazia si mangia, si studia, si guarisce”, una frase più volte smentita dalla storia perché purtroppo anche in democrazia spesso non si riescono a risolvere i problemi della società.
Ma questa insufficienza non è sicuramente dovuta alla democrazia in se, ma agli uomini che, per timore o per calcolo personale, non fanno il loro dovere.
Il titolo della grande inchiesta voluta da Alfonsin, sulle scomparse di oppositori durante la dittatura militare, il “Nunca Mas” (mai più), è rimasto scolpito sulla roccia, in un paese che ha pagato un prezzo incalcolabile quando, sulla luce della democrazia, prevalse il buio dell’oppressione.
Alfredo Somoza
Commovente ricordo, Alfonsin è stato uno dei più sinceri democratici dell’America Latina