5 maggio 1821: Manzoni celebra la morte di Napoleone

a-manzoni-1di Camilla Mantegazza

Un inno sacro, nel suo linguaggio lirico-religioso, derivato da fonti bibliche, patristiche e religiose. Un’ode civile, nelle movenze epiche, nella rievocazione dei momenti culminanti della vita dell’imperatore, arbitro della storia. Un’orazione funebre, in nome di  Napoleone, mai nominato, dinnanzi alla “man del cielo”, unica entità più ponente dell’”uom fatale”.

Manzoni lesse la notizia della morte di Napoleone sulla “Gazzetta di Milano” del 17 luglio del 1821 e subito, preso da improvviso turbamento, compose di getto quel “cantico che forse non morrà”, “Il Cinque Maggio”, ultimandolo in pochi giorni, buttando nero su bianco le sue strofe, le sue rime, le sue ansie e il suo genio. La censura austriaca, però, ne vietò la pubblicazione. Ma il componimento cominciò a circolare manoscritto per essere poi pubblicato senza autorizzazione dall’autore stesso, al di fuori del Lombardo-Veneto, divenendo immediatamente popolarissimo. Goethe si preoccupò di farne una prestigiosa traduzione, innalzando l’ode alla gloria anche all’estero. Nessuno si sarebbe mai aspettato una simile celebrazione “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio” da quel Manzoni da sempre dichiaratosi liberale, avverso a quell’uomo che aveva instaurato un potere personale e autoritario “dall’Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno”: “lui folgorante in solio / vide il mio genio e tacque; / quando, con voce assidua,/ cadde, risorse e giacque /  di mille voci al sonito / mista la sua voce non ha”. Ma la morte, avvenuta appunto il 5 maggio 1821 nell’isola di Sant’Elena, dove da sei anni Napoleone si trovava “naufrago”, e le notizie giornalistiche che testimoniavano una sua conversione cristiana, indussero il Manzoni a rivedere la vicenda napoleonica da una nuova prospettiva e a tentarne un bilancio conclusivo, da un punto di vista più religioso che politico. E così, l’autore sottolineò il ruolo salvifico della Grazia Divina e la funzione della Provvidenza, la quale volle “volle […] stampar” in una una “più vasta orma” della potenza creatrice divina: la figura di Napoleone venne dunque iscritta nel disegno storico voluto da Dio, culminante nella morte, fonte rivelatrice della vanità della sua pur “superba altezza”. Un Dio che ridimensiona e umilia tutto, comprimendo l’individuo, abbassando l’eroe, limitato in una prospettiva universale.

Natalino Sapegno, critico e storico della letteratura, ha definito l’ode come la “lirica di più vasto respiro che Alessandro Manzoni abbia mai scritto”. Un’ode immortale, un incipit scolpito nella memoria di tutti.

“Fu vera gloria?”: solo “silenzio e tenebre”.

 

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