di Mattia Gelosa
Il nuovo film di M. Night Shyamalan (Il sesto senso, Signs, The Village e The Visit) rilancia la carriera dell’enfant prodige americano: un regista capace di capolavori indimenticati e incappato poi in alcuni scivoloni con brutture come After Earth o The Last Airbender.
Perchè Shyamalan ha talento, usa la macchina da presa con sapienza e sa scrivere thriller angoscianti, ma ricchi di metafore e sovrastrutture che ci impediscono di considerarli semplici B-movie.
Così, con “Split ” (come col precedente The Visit ) il regista torna anche sceneggiatore e può ambientare i film in quei microcosmi che sa gestire al meglio: come i suoi primi lavori, che avevano un pugno di personaggi chiusi nella claustrofobia di vite ai margini della società, “Split” si muove sinuoso fra i cunicoli di un bunker dove Kevin, uno schizofrenico con 23 personalità (un sorprendente James McAvoy) rinchiude tre ragazze che ha rapito. Due sono figlie di papà che pensano di risolvere tutto con qualche semplice trucco di astuzia, una, Casey, è una sociopatica problematica e depressa (Anya Taylor-Joy) dedita a lunghe riflessioni. Gli unici momenti di fuoriuscita nel mondo sono le sedute di Kevin dalla dr. Fletcher (Betty Buckley), una psicologa che pian piano capisce che il suo paziente sta nascondendo qualcosa di pericoloso, e dei flashback di Casey.
Shyamalan ha fra le mani diverse componenti da dosare e lo fa piuttosto bene: la suspense non manca, così come un certo approfondimento psicologico dei personaggi, venato in alcuni tratti da qualche tocco di humour.
Certo, il film nella seconda parte sterza verso l’horror parascientifico, ma lo fa senza bruschi cambi di direzione, in modo graduale e ben calibrato, lasciando che lo spettatore riesca a digerire la novità e non la subisca col rischio di rigettarla.
Come anticipato, con Split Shyamalan rilancia la sua carriera e sorride anche a livello economico, visto che il film è costato circa 9 mln di dollari e ne ha già incassati più di 100, ma alcune riflessioni sono doverose.
Innanzitutto, il regista si sta rilanciando con due opere nelle quali sta calcando meno la mano, ossia in due film meno autoriali di quanto non lo fosse, per esempio, The Village: proprio quel lato filosofico che permeava le sue prime pellicole e le rendeva così uniche, qui rimane appena accennato, nonostante qualche spunto su temi come il dolore, la diversità e la prigionia che ci regala il finale.
Anche la regia, seppur sempre impeccabile, è asettica e distaccata, con la mano dell’indoamericano che è appena percettibile, mentre sorprende anche l’abbandono di alcune presenze simboliche prima fisse nella sua cinematografia, come l’acqua o il colore rosso. Manca persino il finale che ribalta la visione intera del film, un altro marchio di fabbrica di Night!
Insomma, Split è in generale un bel film, ma il vero Shyamalan si è nascosto non poco per realizzarlo e questo deve far riflettere l’artista, poiché è il momento di capire se per il pubblico è giusto dover rinunciare in parte alla propria personalità, oppure se, riconquistati la critica e il consenso dei botteghini, si possa tornare a fare film d’autore.
Comunque vada, però, è bene fare i complimenti a Shyamalan, un artista il cui ritorno smuove sempre il panorama dei film nelle sale, un autore che è una garanzia di originalità e un cineasta che fa da chiaro esempio di come si dovrebbe muovere una macchina da presa.