9 maggio 1978 muore Peppino Impastato vittima di mafia

Peppino_Impastato_1977di Camilla Mantegazza

Fu una notte più buia delle altre, quella tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Erano le sei, circa, quando a  Roma, in via Caetani, venne abbandonato l’inerme corpo di Aldo Moro nel bagaglio di quella Renault 4 rossa, divenuta tristemente famosa. Vestito di tutto punto, costretto in quell’elegante completo scuro che indossava 55 giorni prima, in Via Fani, il giorno del suo rapimento. Il processo del popolo si poteva dire concluso, Moro era stato riconsegnato. Intorno a mezzogiorno, la triste notizia per l’Italia. Era la stessa ora, circa, quando fu ritrovato un corpo dilaniato da una violenta esplosione di tritolo, nei pressi di Cinisi, un paesino affacciato sul mare, a 35 km da Palermo. Era il corpo di Giuseppe Impastato, di colui che aveva parlato di mafia, dove di mafia non si poteva parlare, dove tutti avevano paura, a parte lui.

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Siciliano libero, rivoluzionario comunista e militante della sinistra extraparlamentare, da bravo figlio del ’68 ruppe con il padre, dichiarando guerra alla mafia che sin da piccolo l’aveva coccolato. Una storia di coraggio, la storia del microfono di radio Aut divenuto megafono attraverso cui quotidianamente e ossessivamente urlare nomi e fatti impronunciabili, che dovevano restare oscuri e oscurati, politicamente e mediaticamente.  Una storia di coraggio. Gaetano Badalamenti,  Don Tano, questo il nome più volte pronunciato e “infamato”, la cui casa distava quei famosi “cento passi” rispetto all’abitazione degli Impastato.


Tutti sapevano, nessuno osava dirlo. Indiscusso boss della mafia siciliana, degli anni ’70, al giudice americano che gli chiese se appartenesse a Cosa Nostra rispose: “Se lo fossi, non ve lo direi, per rispettare il giuramento fatto”. Morì nell’aprile 2004 negli USA, dove scontava dal 1984 una condanna a 45 anni, senza nessun pentimento, rifiutandosi di collaborare, negando sino alla morte di parlare delle trattative Stato – mafia. Lontano dall’Italia da circa 20 vent’anni, era stato imputato di due grandi processi. Il primo quello di Perugia, insieme a Giulio Andreotti, per l’omicidio dello scomodo giornalista di OP Mino Pecorelli, per il quale era stato condannato e poi assolto in Cassazione.

Il secondo, il processo di Palermo per l’omicidio di Peppino Impastato. Era stato lui, il capo di Cinisi, il nome gridato, provocato e accusato dallo stesso Peppino ad adagiare il suo corpo su delle rotaie per poi togliergli la vita. Ci vollero anni, decenni, affinché la verità venisse a galla. “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 0,30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore” si ricavò da un fonogramma del procuratore capo Gaetano Martorana. Un atto di terrorismo-suicida. La pista mafiosa non fu inizialmente presa in considerazione. Si disse che Peppino fu ucciso due volte: da don Tano e da chi non volle far emergere la verità procurandogli giustizia.

 

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