Agricoltura biologica, prove di ‘conversione’

logo_aiabdi Francesca Radaelli

Quanto è biologica l’agricoltura lombarda? Quanto potrebbe diventarlo? E in che modo?

Non c’era occasione migliore della fiera ‘Fa’ la cosa giusta!’, in scena dal 13 al 15 marzo a Milano, per fare il punto sulla situazione. Alla vigilia di Expo, nella cornice della manifestazione dedicata agli stili di vita sostenibili, si è svolto domenica 15 marzo il convegno Distretti Bio – Territori lombardi si convertono all’agricoltura biologica, organizzato dalla sezione lombarda di Aiab (Associazione italiana per l’agricoltura biologica) in collaborazione con Regione Lombardia Direzione Generale Agricoltura.

Sotto i riflettori i Biodistretti, ovvero, da definizione, quelle “aree naturalmente vocate al biologico dove agricoltori, cittadini, operatori turistici, associazioni e pubbliche amministrazioni stringono un accordo per la gestione sostenibile delle risorse, partendo dal modello biologico di produzione e consumo”. Ovvero: filiera corta, gruppi di acquisto, mense pubbliche bio.

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Realtà che stanno nascendo anche nella nostra regione, anche se, come ha sottolineato nel corso del suo intervento di apertura Antonio Tagliaferri, dirigente della Direzione regionale Agricoltura, in Lombardia il trend di conversione dei terreni al biologico è sì positivo ma cresce ad un ritmo decisamente inferiore rispetto alla domanda e ai consumi domestici di prodotti bio.

Se nel piano di sviluppo rurale, che deve ancora essere approvato in sede europea, l’intenzione è quella di inserire misure mirate  a sostegno delle aziende in conversione, scopriamo però che esempi positivi di conversione al biologico in Lombardia esistono già.

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Si chiamano Franciacorta, Valle Camonica e Casalasco Viadanese. Le loro storie, raccontate dai relatori  Paolo Di Francesco (dottore agronomo della Franciacorta), Gianni Tosana (distretto Valcamonica bio) e Paolo Tortella (comunità del cibo del Casalasco-Viadanese), sono diverse, legate alla conformazione e alla storia dei diversi territori. Se per esempio in Franciacorta la sfida, iniziata nel 1999 con i cosiddetti ‘apripista’ (il Barone Pizzini su tutti), è stata convertire al bio la produzione di un bene di lusso come il vino, nella valle dei Camuni le coltivazioni biologiche sono state realizzate su alpeggi in quota dove mai era approdata prima l’agricoltura convenzionale, terreni impervi ma anche fertilissimi.

Quali sono le prospettive, guardando al futuro? Innanzitutto, promuovere un’educazione al biologico sul territorio stesso, rendendo ancora più integrato il singolo ‘distretto’. Ma anche far entrare in contatto i territori che hanno scelto un modello di sviluppo sostenibile, creando una rete italiana dei biodistretti, in grado di integrarsi con realtà analoghe in Europa. E, spiega in conclusione Delizia del Bello di Aiab, relazioni importanti sono già state avviate con aree agricole di Francia, Germania e Slovacchia.

Piccoli produttori 'bio' in fiera a Fa' la cosa giusta!, nello spazio dedicato all'Umbria
Piccoli produttori ‘bio’ in fiera a Fa’ la cosa giusta!, nello spazio dedicato all’Umbria

Insomma la conversione al biologico si può fare, le premesse ci sono tutte, anche in Lombardia. Serve il sostegno delle istituzioni. Ma serve anche un cambio di mentalità, in tutta la filiera. Perché è vero, un’azienda deve fare business, ma nel momento in cui si sceglie l’agricoltura sostenibile le priorità diventano altre. Ossia etica, rispetto della natura e dei suoi tempi. Una volta avviato il processo di conversione, il primo prodotto biologico certificato lo si ottiene non prima di tre anni. Ci vuole pazienza. Ma forse anche in questo, nel dare valore al tempo, consiste la vera ‘conversione’.

Francesca Radaelli

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