di Mattia Gelosa
Il regista giapponese, nato il 23 marzo 1910, è simbolo del cinema orientale e annoverato tra i più grandi di sempre. Ha avuto una carriera assolutamente straordinaria e quanto mai longeva: iniziò nel 1943 con Sugata Sanshiro per finire nel 1993 con Madadayo. In mezzo, pellicole straordinarie che hanno ispirato moltissimi maestri: Fellini, Leone, Tarantino e Woody Allen sono i grandi nomi che da sempre hanno dichiarato amore per i capolavori del nipponico. La fortezza nascosta del 1958, invece, diede lo spunto a George Lucas per scrivere il primo film della saga di Star Wars!
Riassumere una carriera importante come la sua è molto complesso, quindi non possiamo che dedicarci ad alcune opere che rappresentino al meglio la poetica di questo artista: innamorato del Giappone medievale dei Samurai, Kurosawa ambienta i suoi film quasi sempre nel passato, non dimenticando mai di inserire scene di guerra con battaglie a cavallo, momenti di pioggia torrenziale e sequenze di silenzio o introspezione psicologica.
I personaggi dei suoi film recitano secondo lo stile del teatro Nō, dunque i volti devono essere monoespressivi come maschere e i movimenti dell’attore meccanici, lasciando allo spettatore l’impressione di vedere quasi delle marionette. Per questa ragione e per la ricorrenza delle scene citate sopra è molto semplice riconoscere lo stile Kurosawa, divenuto un vero marchio di fabbrica.
Il regista apre gli anni ’50 con un lavoro indimenticabile, Rashomon, una riflessione sull’importanza del vedere e sulla soggettività della realtà: un samurai viene ucciso da un brigante che abusa anche di sua moglie, ma i quattro testimoni che raccontano la vicenda (tra cui il narratore) riportano versioni diverse dell’evento e alla fine non è data una risposta precisa riguardo ai fatti.
Il successo fu strepitoso ovunque e Rashomon portò al giapponese l’Oscar per il Miglior Film Straniero e il Leone d’Oro a Venezia.
Nel 1954 esce il suo film più famoso, I sette samurai, un vero e proprio kolossal che narra di un villaggio di contadini che chiede aiuto a sei samurai per difendersi dai briganti. I samurai diventano poi sette quando uno degli adulti del villaggio decide di travestirsi e combattere con i difensori.
La pellicola ha una durata originale di 207 minuti ed è un perfetto esempio dello stile di riprese belliche del regista, ma ha subito diverse revisioni fino ad essere distribuito in versioni di 160, 192 e 130 minuti a seconda dei tagli. Vinse il Leone d’Argento a Venezia e fu candidato a due Oscar, ma resterà nella storia senz’altro più come punto di riferimento per le generazioni future che per i premi vinti.
Nel 1957 presenta il primo omaggio a Shakespeare, Il trono di sangue, bellissimo remake del Macbeth naturalmente in chiave nipponica e Samurai: spiccano i personaggi mossi come marionette dal destino, la presenza di una Parca al posto delle streghe e una vicenda più concreta ed essenziale rispetto a quella del dramma.
Nel 1975 torna a vincere l’Oscar con Dezu Ursula, produzione russo-giapponese che riprende la storia di alcuni esploratori siberiani a inizio Novecento: la riuscita del film dimostra il valore di Kurosawa in assoluto, anche al di fuori delle pellicole legate al suo stile canonico.
Nel 1980 con Kagemusha torna al passato, stavolta il XVI secolo, raccontando di un ladruncolo che si spaccia per un fortissimo guerriero: ancora il regista fa centro e il film vincerà la Palma d’Oro a Cannes.
Ran del 1985 è una versione samurai di Re Lear, altro omaggio shakespereano che stavolta mette sul banco degli accusati anche lo stesso re, che paga da vecchio le colpe di malefatte compiute durante il suo lungo regnare.
Tutte le fasi di ripresa sono state seguite da Chris Marker, che ha realizzato così il documentario A.K., utilissimo per capire il lavoro del grande autore sul set: vediamo un uomo che cura i dettagli in modo maniacale, che dà spiegazioni e dimostrazioni in prima persona delle scene, ma con un tono costantemente pacato e sereno. Tutti convivono sul set come se vivessero in una comune, mangiando assieme le stesse cose, riposandosi a terra, parlandosi senza alcun segno di divismo o gerarchizzazzione dei ruoli. Tanto il regista stesso quanto il tecnico che posa i cavi hanno esattamente gli stessi diritti, il che fa trasparire la grande umanità di Kurosawa.
Il film vinse l’Oscar per i Migliori costumi, ma è divenuto celebre specialmente per la lunga battaglia finale
Nonostante fosse girato da un Kurosawa ormai 75enne, Ran è per molti il suo capolavoro e una sorta di primo testamento che anticipa Madadayo del 1993, vero e proprio ultimo lascito di questo genio, nel frattempo premiato anche con l’Oscar alla carriera nel 1990.
Pochi anni dopo si spegnerà, sempre nella sua amata Tokyo, nel 1998: la sua eredità è un insieme incredibile di film dai toni epici, tanto essenziali quanto spettacolari, tanto classici e di impostazione simile quando sempre modernissimi.
Una scena di battaglia da I sette samurai (1954)
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