Chissà se nei primi anni del Novecento era possibile incontrare per le strade di Milano Anna Kuliscioff, con al suo fianco Filippo Turati. Magari proprio lì, in piazza duomo, all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele, in cui oggigiorno trova spazio una targhetta in sua memoria. Lei che era una donna con un grande carisma, forse vittima dell’inquietudine tipica di chi ha dentro sé i grandi dubbi esistenziali; una donna che, nonostante l’epoca ancora molto maschilista, è stata in grado di affermarsi senza farsi relegare in una cucina a fare da mangiare. Antonio Labriola scriveva così di lei, in una lettera a Friedrich Engels nel 1893: «A Milano, non c’è uomo che viceversa è una donna, la Kulisciova».
Il suo vero nome è Anja Rosenstein, nata in Crimea il 9 gennaio 1855, in una famiglia ebrea, che le ha permesso di vivere un’infanzia felice e spensierata e che ha provveduto a far crescere in lei l’amore per lo studio e la fame di giustizia. Nel 1871, decide di andare a frequentare un corso di filosofia a Zurigo, una città al centro dell’Europa, con una università che prevedeva l’ammissione anche alle donne e in cui Anna ritrova il suo luogo ideale, in cui poter esprimere se stessa e dove fa crescere i propri ideali di libertà. Successivamente, viene costretta a rimpatriare a causa di un ordine dello zar di Russia, e in controbattuta lei aderisce alla cosiddetta “andata verso il popolo”, lavorando nei villaggi a fianco dei contadini, per condividerne la misera condizione. In quel periodo si convinse della necessità dell’uso della forza per liberarli dall’oppressione. Per questa sua iniziativa venne processata in Russia, dopodiché decise di fuggire ancora una volta in Svizzera, dove cambiò il suo nome da Rosenstein in Kuliscioff, in modo da non poter essere rintracciata dagli emissari zaristi. In questo soggiorno svizzero conobbe il socialista Andrea Costa, e con lui passò quegli anni divisi in continui spostamenti, tra Svizzera, Francia e Italia.
Nel 1880 a Imola, diede alla luce la figlia Andreina, ma nel 1881 la loro relazione terminò. Tornò quindi nell’amata terra elvetica in cui non perse tempo e si iscrisse al corso di medicina, la specializzazione poi nel 1888 a Torino e a Padova, in ginecologia. Con la sua tesi si scoprì l’origine batterica della febbre puerperale, salvando così milioni di donne da una morte che fino ad allora era quasi certa. Conclusi gli studi di medicina, si trasferì a Milano, città in cui iniziò a dedicarsi alla professione, girando soprattutto nei quartieri più poveri della città e per questi fatti si era guadagnata l’appellativo di “dottora dei poveri”. Un collegamento tra attività professionale e fede politica, fede politica che divide quotidianamente con Filippo Turati, incontrato mentre raccoglie fondi per esuli russi e con il quale, dopo alcuni dubbi, si lega sentimentalmente.
Un’unione che nel tempo ha portato con sé diversi frutti: la loro casa ospita dapprima il circolo filosofico milanese che diviene poi la redazione de “La Critica Sociale”. Nel 1898 venne arrestata per reati di opinione e di sovversione, poi venne scarcerata per indulto. Ma nulla può fermare l’effervescente Anna Kulisioff che nel 1902, con la figlia Andreina sempre a suo fianco, tramite la figura di Turati fa presentare al parlamento la legge Carcano, a tutela del lavoro minorile e femminile, elaborata dalla Kuliscioff, legge che sarà approvata. Ma non finisce qua: induce Turati a tagliare con gli intransigenti come Salvemini e Labriola, contrari a ogni forma di collaborazione con il governo e a prendere contatti con Giolitti.
Lavorò molto anche affinché alle donne fosse concesso il diritto al voto, ma la supremazia maschilista italiana, non lasciò scampo e permise a Giolitti di emanare un’estensione agli analfabeti, seppur mantenendo un diritto al voto a suffragio maschile. Questo incrinò i rapporti con Turati.
Morì a Milano il 29 dicembre del 1925, ma nemmeno nel giorno del proprio funerale riuscì a riposare in pace, perché un gruppo di fascisti si scagliò sul corteo funebre.
Sepolta al cimitero monumentale meneghino, di lei si parla ancora grazie a una fondazione omonima a lei stessa, in cui sono custoditi 35000 volumi e opuscoli donati da Giulio Polotti, dedicati interamente alla storia del socialismo.
Chiara De Carli