di Francesca Radaelli
“L’artista non deve essere il giudice dei suoi personaggi né di ciò che dicono, ma soltanto il testimone imparziale”. A dirlo è Anton Pavlovic Cechov, il grande scrittore e drammaturgo russo nato il 29 gennaio 1860 a Taganrog, città portuale affacciata sul mar d’Azov.
Figlio di una famiglia di umili origini, prima di dedicarsi interamente alla scrittura Cechov esercita la professione di medico: “la medicina è la mia moglie legittima, la letteratura la mia amante. Quando mi annoio con una, vado dall’altra”, afferma. E uno spirito da ‘medico’ si può forse intravedere anche in qualcuno dei suoi scritti. Inizia a scrivere i primi racconti già negli anni dell’università, proprio mentre studia medicina. Li pubblica su riviste satiriche e li definisce racconti ‘umoristici’. Descrivono in maniera estremamente realistica la Russia del suo tempo. Testimone imparziale sì, ma non completamente insensibile ai drammi che attraversano il suo paese.
Quando viene assassinato lo zar Alessandro II Cechov è poco più che diciottenne. In quegli anni tumultuosi il futuro scrittore si tiene lontano dai movimenti di ribellione che agitano il popolo, si dice convinto che del fatto che “la madre di tutti i russi è l’ignoranza”, e che essa sia presente in egual misura in tutti i partiti.
Non per questo rimane indifferente di fronte alle problematiche sociali della Russia del suo tempo. Anzi. È già uno scrittore affermato quando decide di partire per l’isola di Sakalin, ai confini della Siberia, dove erano deportati numerosi detenuti russi, costretti ai lavori forzati. La descrizione che ne fa nel resoconto del viaggio, pubblicato con il titolo ‘L’isola di Sakalin’ descrive uno scenario molto simile ai campi di concentramento che sorgeranno in Europa negli anni a venire. E la sua denuncia porta anche a dei risultati. Conseguenza della pubblicazione del libro è infatti l’abolizione in Russia delle punizioni corporali denunciate dallo scrittore.
Dopo un viaggio in Europa, dove visita Francia e Italia, decide di tornare nella sua Russia, e acquista una proprietà a Melikhovo, a sud di Mosca. Qui si dedica al giardinaggio e scrive alcune delle sue opere più celebri, come Il gabbiano, La camera n.6, Racconti di uno sconosciuto. Allo scoppio di una terribile epidemia di colera, ritorna al suo antico mestiere e, smessi i panni dello scrittore, decide di assistere i compaesani come medico.
Ma lui stesso è malato, di tubercolosi: per questo motivo è costretto a vendere la proprietà di Melikhovo e trasferirsi in Crimea, a Yalta. Anche qui continua il suo impegno sul versante sociale promuovendo la costruzione di tre scuole e lanciando un nuovo allarmi su una nuova epidemia di colera. In questi anni scrive Il giardino dei ciliegi, che riscuote un successo clamoroso a teatro.
Muore all’età di quarantaquattro anni in una località della Foresta Nera durante un viaggio in Europa, in cerca di cure per la sua malattia.