di Daniela Annaro
Ricostruire il contesto e non isolare l’opera d’arte che, altrimenti, diventa prodotto utile solo al mercato e non al fine per cui è stato realizzato. E’ in questo modo che si ridà senso al manufatto artistico.
Un’operazione complessa (e onerosa) che governa la mostra curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Milano (fino al 25 giugno). Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics. Italia 1918-1943 è il titolo dell’esposizione milanese. Una rassegna mastodontica che riunisce seicento tra fotografie, dipinti, sculture (a cui aggiungere 800 documenti e 29 cinegiornali dell’Istituto Luce) ed è organizzata secondo un criterio cronologico che parte dai versi futuristi di Filippo Tommaso Marinetti pubblicati nel 1912 e arriva al 1943.
E’ una sorta di prologo per capire in quale direzione si muovevano gli intellettuali italiani una decina di anni prima della Marcia su Roma e dell’avvento del fascismo. Ogni dipinto, scultura, mobile, progetto architettonico, è stato ricollocato con l’ausilio di grandi foto in bianco e nero nella mostra, nell’atelier, nelle abitazioni in cui era stato pensato e voluto. Lo spiega Germano Celant.
Facendo ricorso ai documenti fotografici d’epoca come testimonianza originaria della visione espositiva- scrive il curatore – li si è trasformati in una risorsa di studio dinamico attraverso il rendering fotografico che è servito a ricreare in mostra , con la presenza di opere originali, le situazioni storiche. Rispetto all’indefinitezza della parete e del muro monocromo che ha caratterizzato la storia espositiva del Novecento, le tracce informative lasciate da parole e fotografie, pubblicazioni e disegni, modelli e cartoni preparatori, sono così presentate accanto ai lavori pittorici e alla sculture con lo scopo con lo scopo di attivare la visione, l’interpretazione e la conoscenza degli aspetti sociali e pratici delle vicende dell’arte italiana nel periodo preso in considerazione.
Ripercorre, dunque, un tempo, cinque lustri, che non è stato solo di pittori, scultori, architetti, urbanisti, scrittori e letterati, ma “creativi” in generale che si riconoscevano nel regime o ci convivevano più o meno criticamente. Visitare la mostra è una sorta di immersione totale in quegli anni. Proprio per ricreare il contesto sociale e politico vengono presentati progetti architettonici e urbanistici, nonché allestimenti di grandi eventi quali la Mostra delle Rivoluzione Fascista (1932), l’Esposizione dell’Aeronautica Italiana (1934), la Mostra nazionale dello Sport (1935) e l’imponente disegno dell’E42. Una “realtà aumentata”, come scrive il critico Pietro Marino a cui aggiungere, come contrappeso storico, focus tematici dedicati a politici, scrittori intellettuali come Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Carlo Levi, Alberto Moravia, fra gli oppositori del fascismo.
Lunghissimo l’elenco degli artisti, architetti, fotografi le cui opere rivivono ricontestualizzate. Artisti stranoti come i futuristi Balla, Boccioni, Depero; i metafisici De Chirico, Savinio; il novecentista Sironi; gli architetti Giò Ponti, Giuseppe Terragni, Marcello Piacentini. E poi ancora: Felice Casorati, Lucio Fontana, Renato Guttuso.
Altri meno conosciuti quali l’architetto Luciano Baldasseri o la fotografa ungherese Ghitta Carell, ma altrettanto interessanti e capaci. Il rischio che questa acuta e sterminata presentazione di quegli anni (avvento, dominio e dissoluzione del regime fascista) sia in qualche misura apologetica, dal nostro punto di vista, esiste. Il periodo preso in considerazione racconta una vivacità comunicativa estremamente efficace, una forza creativa imponente.
E’ come se, sotto il regime, ci fosse stata una cabina di regia capace di trasferire al mondo dell’arte notevoli impulsi e grande energia. E, così è stato con tutti i limiti e le gravi pecche di Mussolini. Dobbiamo essere grati per il dispiegamento di forze e contenuti proposte dal curatore Celant e dalla Fondazione Prada per essere riusciti a inquadrare storicamente un periodo storico nella sua complessità. Periodo della storia del nostro paese su cui ancora forse non si è riflettuto e analizzato abbastanza, per molti, forse anche per noi, ancora un periodo tabù.