di Francesca Radaelli
Risate a tratti incontenibili e applausi convinti. Così il pubblico del teatro Manzoni di Monza ha accolto ieri sera Decamerone: vizi, virtù e passioni, lo spettacolo con Stefano Accorsi e la regia di Marco Baliani che sarà in scena fino a domenica. E che ha fatto rivivere sul palcoscenico lo spirito delle novelle del grande Boccaccio, un patrimonio che ci appartiene in quanto italiani, come sottolineano gli ideatori della messa in scena, che rappresenta un ‘tesoro’ anche e soprattutto dal punto di vista linguistico. Un tesoro che, nella rappresentazione, viene affidato in custodia a una sgangherata compagnia di attori – interpretati dai bravi Silvia Ajelli, Salvatore Arena, Silvia Briozzo, Fonte Fantasia, Mariano Nieddu – capitanati dal capocomico Accorsi. Sono loro che, utilizzando come scenografia il furgone con cui si spostano girando per l’Italia, fanno riecheggiare la voce del grande autore trecentesco e danno corpo ai personaggi di sette delle cento novelle del Decamerone, trasformandole da narrazione di prosa in narrazione teatrale. La lingua, in verità, non è proprio quella del Boccaccio: come spiegato all’inizio, è stata riadattata in modo da essere più comprensibile alle orecchie moderne– e soprattutto più funzionale al contesto di teatralizzazione e non di lettura – ma il lavoro fatto sul testo da questo punto vista è davvero ottimo. Viene mantenuta infatti tutta la ricchezza espressiva di un italiano che appare sì antiquato, ma anche immediatamente comprensibile, godibilissimo e davvero efficace, soprattutto nelle situazioni più comiche, anche grazie alla caratterizzazione dialettale che è stata aggiunta in alcuni casi (come nella novella di Elisabetta da Messina, o del bolognese Calandrino). Un lavoro simile era stato compiuto da Marco Baliani sull’Ariosto per l’Orlando Furioso, che vedeva sempre Accorsi protagonista e che ha dato inizio all’ambizioso Progetto Grandi Italiani, il cui obiettivo è proprio quello di restituire agli spettatori, in una dimensione di fruizione collettiva e teatrale, alcuni dei grandi testi del nostro patrimonio letterario.
Perché, dopo Ariosto, Boccaccio? Nel Decameron a raccontarsi le novelle è un’allegra brigata rifugiatasi in collina per sfuggire alla peste che ha colpito Firenze. “Oggi ad essere appestato è il nostro vivere civile”, sostengono gli ideatori dello spettacolo, riferendosi alla corruzione dilagante, al malaffare, allo sfruttamento dei più deboli.
L’amore nobile e tragico di personaggi come Elisabetta e Ghismunda. L’astuzia di Monna Tessa che riesce a gabbare il marito geloso, e quella di frate Alberto che si traveste da ‘arcangelo Gabriello’ per farsi largo nel letto di donna Lisandra. O quella di Masetto da Lamporecchio che si finge muto e riesce a entrare decisamente nelle grazie delle monache di un convento (badessa compresa). La beffa ai danni di Calandrino – convinto da Bruno e Buffalmacco di essere gravido – e quella di Zima nei confronti del marito avaro della donna di cui è innamorato. La teatralizzazione delle novelle è efficace e insiste molto sull’aspetto comico, che è senz’altro una delle caratteristiche principali della narrazione ‘boccaccesca’. Si ride di gusto anche se la lingua non è quella dei comici di Zelig e l’ambientazione delle vicende narrate è decisamente distante dal nostro vivere quotidiano. Forse, ben prima di ogni possibile tentativo di attualizzazione del testo di Boccaccio, che pure in alcuni punti dello spettacolo viene esplicitamente effettuato – si parla come già detto delle ‘pesti’ del nostro tempo, risiede soprattutto in questo la forza di un ‘classico’ come il Decamerone. Nella capacità di parlare, e di essere capito, anche a secoli e secoli di distanza. Di fare emozionare e divertire.
In conclusione Stefano Accorsi invita esplicitamente il pubblico a leggere anche le altre novantatre novelle, quelle rimaste fuori dallo spettacolo.
E sarebbe bello se i tanti spettatori venuti a teatro per Accorsi, una volta tornati a casa andassero davvero a riscoprire Boccaccio.