di Francesca Radaelli
Cuffie e microfoni sospesi sul palco, una voce radiofonica che parla attraverso di essi e ripete “la valigia siamo noi”. Inizia con la voce di Giuseppe Battiston, che ne è protagonista e multiforme interprete, il monologo “La valigia”, in scena lo scorso weekend al Teatro Manzoni di Monza. Tratto dal testo omonimo di Sergej Dovlatov, giornalista sovietico esule negli Stati Uniti, lo spettacolo, con la regia di Paola Rota, narra la nostalgia del protagonista per il Paese che ha scelto di lasciare alle proprie spalle, ma che continua a portare dentro di sé.
Dalla valigia di Dovlatov escono infatti, disordinatamente, strani personaggi e veri e propri quadri di un passato lontano, che proiettano gli spettatori in un mondo che non esiste più, quello della Leningrado in cui il protagonista ha trascorso decenni della sua vita. Un mondo fatto di costruttori di statue colossali, guardiani delle prigioni, contrabbandieri di calze, grandi bevitori di vodka. Tutti personaggi che appartengono a un altro tempo e a un altro mondo ma che il narratore continua ad amare e che si sorprende a ricordare con nostalgia, ora che lui stesso si trova nella terra della libertà.
Personaggi a cui Giuseppe Battiston è bravissimo a dare voce e gestualità, passando con naturalezza e bravura dall’uno all’altro e riuscendo a tenere il palco, da solo, per oltre 1 ora e mezza di spettacolo.
La sfida per il pubblico è seguire Dovlatov nelle sue digressioni e divagazioni, che partendo dagli oggetti contenuti nella sua valigia immaginaria aprono affreschi ironici e spassosissimi della vita nella Leningrado sovietica: una vita in cui sembrerebbe esserci ben poco da rimpiangere, ma che il protagonista non può fare a meno di ricordare con nostalgia.
È questo, dopotutto, il paradosso che sta nel fondo della valigia di ogni migrante. O più semplicemente, di ogni persona che si trovi a guardare dietro di sé, o meglio dentro di sé, verso un passato perduto e lontano, che però non si può fare a meno di portare con sé.