Cambiare colore agli stereotipi

di Francesca Radaelli

Di che colore è il “color carne”?  “Un colore rosa pallido, simile a quello della pelle umana”. Questa era, fino a poco tempo fa, la risposta dei dizionari italiani. Eppure non è vero che il colore della pelle di tutta l’umanità sia il rosa. È vero invece che dietro un’espressione di uso comune si può nascondere una discriminazione.

Da questa consapevolezza è nata la campagna di advocacy “Color Carne”, ideata nel 2022 da Cristina Maurelli, storyteller bianca, e Giuditta Rossi, strategist nera, fondatrici di Bold Stories, società di consulenza che opera “con l’obiettivo di dare potere alle persone”, come hanno spiegato nel corso della serata del 30 ottobre organizzata a Monza da Caritas e Fondazione Monza Insieme nell’ambito del ciclo di eventi “Donne per i nostri giorni”.  

“Il linguaggio e le rappresentazioni visive danno sostanza al mondo intorno a noi e riguardano tutte e tutti”, spiega al Dialogo di Monza Cristina Maurelli.

Com’è nata l’idea della campagna “Color Carne”?

E’ nata da un dialogo tra noi due. Un giorno ho detto a Giuditta: “Potresti mettere un reggiseno color carne sotto quel vestito”. Lei si è messa a ridere scuotendo la testa e da lì ci siamo rese conto che questa espressione considerata neutra e tipica del linguaggio comune, contiene in realtà una visione razzista. E da lì sono nati gli slogan della nostra campagna social: “Color carne non è solo un colore” e “Cambiare colore al color carne”.

Una campagna che ha avuto un tale successo da essere premiata a livello europeo.

Questo ci ha sorpreso molto. L’idea è piaciuta a diversi influencer, che hanno condiviso e rilanciato le immagini della campagna sui loro profili. Tante persone sono rimaste colpite dalla riflessione sull’uso di un’espressione così abituale e allo stesso tempo così discriminante. La campagna è stata ripresa anche attraverso iniziative dello IED e di altre realtà e amplificata dalla stampa. Nel novembre 2022 siamo state premiate a Londra agli European Diversity Awards, il più prestigioso evento europeo dedicato alla diversità: eravamo le uniche due italiane e abbiamo ricevuto l’Highly Commended Award for Marketing Campaign of the Year.

Giuditta Rossi (a sinistra) e Cristina Maurelli con il premio ricevuto agli European Diversity Awards

E alla fine il significato di “color carne” è cambiato, almeno sui dizionari.

Questa è stata una grande conquista. Sono stati ben cinque i dizionari italiani che hanno cambiato la definizione di color carne: Garzanti, Nuovo Devoto-Oli, Nuovo De Mauro per Internazionale, Treccani e Lo Zingarelli – Zanichelli. Ora inserendo in Google il termine “color carne” non compaiono più solo immagini rosa o beige, ma tanti altri colori. È la dimostrazione che insieme possiamo sfidare gli stereotipi e cambiare gli standard!

Un’espressione analoga a “color carne” esiste anche in altre lingue oltre l’italiano?

Sì, l’abbiamo trovata in quasi tutte le lingue europee. Riteniamo che l’associazione di quest’espressione con il rosa sia un tratto profondamente razzista, retaggio di un passato e di una mentalità che rischiano di rimanere all’interno della lingua. La lingua invece è qualcosa che si evolve e cambia ed è giusto spingere per questo cambiamento.

E quale dev’essere, secondo voi, il rapporto tra realtà e parole? L’una determina le altre o viceversa?

Personalmente, ho dedicato tutta la mia vita e il mio lavoro alle parole e alle storie. Le parole creano la realtà. Lo vediamo anche nel racconto della Genesi nella Bibbia. Dio definisce il buio e la luce attraverso la parola e in questo modo li fa esistere. Quindi affida al primo uomo la possibilità di dare il nome agli animali. Perché dare il nome permette di far esistere le cose, le parole hanno la capacità di creare, o non creare, la realtà. Solo dando valore alla propria identità si può diventare ciò che si è. E il manifestarsi di identità che prima non avevano voce porta ricchezza a tutti.

“Color Carne” è una campagna che si è diffusa capillarmente attraverso i social network. Il potenziale trasformativo delle parole, oggi, agisce soprattutto nel mondo virtuale?

Non solo. Con il progetto di Bold Stories vogliamo cambiare il modo di narrare a tutto campo, coinvolgendo direttamente le persone, come abbiamo fatto a Monza nell’incontro organizzato da Caritas e Fondazione Monza Insieme lo scorso 30 ottobre. Ma anche coinvolgendo le aziende e spingendole a riflettere sui messaggi che mandano attraverso i loro prodotti e sulle caratteristiche reali delle persone a cui questi prodotti sono destinati.

In che modo?

Per esempio, le aziende di cosmetici sono state tra le prime a capire l’importanza di un ampliamento della loro offerta in ottica inclusiva e hanno iniziato ad immettere sul mercato linee di fondotinta con una gamma di colori più ampia, davvero corrispondente alla varietà cromatica della pelle umana. Se si pensa a un prodotto come il cerotto, per esempio, il fatto che la maggior parte dei cerotti siano di colore beige può mettere in imbarazzo persone con la pelle nera, o comunque non “bianche”. Si tratta di temi che stanno muovendo molto il mondo aziendale. Un altro punto su cui insistiamo quando ci rivolgiamo alle aziende è la promozione di team di lavoro misti, proprio per allargare lo sguardo a diversi punti di vista.

All’estero e nelle aziende multinazionali sono “più avanti” su questi temi?

Dipende, è difficile fare una generalizzazione. Però sicuramente in Italia ci sono tante “resistenze” sul tema dei diritti che spesso, in alcuni ambiti del sentire comune, viene percepito non come qualcosa di trasversale, che riguarda tutti, ma come qualcosa di fastidioso e non necessario. Eppure il principio dell’uguaglianza non solo formale ma sostanziale tra i cittadini è enunciato dall’articolo 3 della nostra Costituzione. E continuare ad alimentare alcuni stereotipi e alcune discriminazioni, oltre a essere anacronistico, può causare sofferenza e disagio nelle persone, causando in alcuni casi anche un rallentamento economico. Basti pensare al ritardo con cui le donne sono entrate a tutti gli effetti a ricoprire ruoli importanti nelle aziende e al danno che ne è derivato.

Non è un caso che la campagna “Color Carne” sia venuta in mente a due donne…

Direi che è significativo che chi ha provato e prova su di sé l’azione degli stereotipi di genere riesca più facilmente a riconoscere altri tipi di pregiudizi e discriminazioni e, al tempo stesso, voglia sradicarli.

E dopo “Color Carne”, avete deciso di allargare lo sguardo anche al mondo degli altri colori, con il libro “Stereotipi a colori. Piccola guida ai pregiudizi e ai bias cromatici”. Tutti i colori contengono in sé degli stereotipi?

Il libro per noi è un modo per continuare a sfidare lo standard, mantenendo l’approccio leggero e “pop” che ha caratterizzato la campagna “Color Carne”. Da lì è nato infatti un movimento per smascherare gli standard e i pregiudizi inconsci anche in altre aree di discriminazione oltre a quella del colore della pelle. Siamo abituati ad attribuire un valore simbolico ai colori, come se il rapporto tra simbolo e colore sia naturale. Invece è arbitrario! Il colore è un codice e, come tale, non è neutro, come potremmo pensare, ma plasmato dalla nostra esperienza e percezione.

Così come il color carne può celare l’idea che il colore della pelle di una persona bianca sia la norma, allo stesso modo anche altri colori possono essere usati in modo arbitrario per definire una persona o una categoria di persone oltre la loro volontà, per esempio nelle rappresentazioni legate al genere. Nella percezione comune siamo abituati a pensare che il rosa sia per le femmine, il viola porti sfortuna e tutto ciò che è verde sia sostenibile. Nel libro spieghiamo che non è proprio così. Anche “Stereotipi a colori” è un invito a farsi delle domande e a sfidare lo standard, per costruire insieme una società in cui ogni persona si senta rappresentata.

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