di Laurenzo Ticca
23 maggio 92. Sul tratto di strada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, all’altezza dello svincolo per Capaci, le vite di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta vengono sacrificate sull’altare degli equilibri inconfessabili che regolano i rapporti tra poteri occulti e trame criminali in Italia.
Quattro mesi prima, il 30 gennaio, la Cassazione aveva confermato la sentenza d’appello nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. 19 ergastoli e oltre duemila anni di detenzione per boss e gregari. Un colpo mortale per la mafia. L’ordinanza di rinvio a giudizio portava la firma di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quattro mesi, tra gennaio e maggio nel corso del quali per Cosa nostra e’ avvenuto l’irreparabile. Boss di primissimo piano e luogotenenti sanno che dovranno marcire in carcere.
La reazione e’ brutale, spietata. Tra marzo e settembre cadono Salvo Lima e Ignazio Salvo plenipotenziari di Andreotti nell’isola. Riina alza il tiro. Stila un elenco di politici da uccidere. Vuole fare la guerra allo Stato per poi trattare e tornare agli antichi equilibri. Falcone e’ un ostacolo. E’ una minaccia. Lui sa. Sa che la posta in gioco va ben oltre Cosa nostra per investire politica e istituzioni. Del resto, da tempo era sotto tiro: il fallito attentato all’Addaura, le campagne di delegittimazione, lo smantellamento del pool antimafia, l’accusa di protagonismo. Falcone era scomodo. Non solo per Cosa Nostra. Capaci è un eccidio in cui la mafia ha il ruolo di coprotagonista. Accanto e sopra c’erano quelle “menti raffinatissime” di cui Falcone aveva denunciato l’esistenza.
Parlò di “gioco grande” il giudice. Quello stesso “gioco grande” contro cui si impegnò Paolo Borsellino dopo Capaci. Divorato dall’ansia di fare presto. Una corsa contro il tempo ferocemente interrotta. In via d’Amelio, a Palermo, 57 giorni dopo la morte del suo amico Giovanni Falcone.