Carolina, una donna al fianco delle donne

CADOM significa letteralmente Centro Aiuto Donne Maltrattate. Nasce a Monza nel 1994 ed è costituito esclusivamente da donne volontarie per stimolare la solidarietà femminile. Oltre alle sede centrale di Monza, esistono sedi decentrate come quelle di Brugherio, Vimercate e Lissone, la cui responsabile, Carolina Bedoia, si è prestata ad un’intervista da parte della redazione Scaccomatto.

(Nella foto la redazione insieme a Carolina)

Lo scopo di questo centro è offrire aiuto, ascolto e sostegno attraverso la metodologia dell’accoglienza. Concetto fondamentale è quello dell’empowerment, ovvero recuperare la potenzialità di una donna affinché possa riconquistare la propria dignità, autonomia, autostima e consapevolezza di sé. Ciò è possibile soltanto se la donna maltrattata, a partire dal desiderio di un forte cambiamento interiore, scopre di non meritare un uomo violento e dominatore, nonché carnefice, desiderando uscire da una spirale infinita di maltrattamenti.

In 20 anni il CADOM si è occupato di più di 4.000 donne. Il fenomeno è in crescita esponenziale, basti pensare alla sola realtà di Lissone che ha registrato un passaggio da 16 a 33 donne dal 2015 al 2016. Nei primi due mesi del 2017 le donne accolte sono già 8.

Al fianco degli specialisti, il CADOM conta 35 donne volontarie che hanno dovuto seguire un corso di formazione di otto incontri e un tirocinio di un anno in sede centrale a Monza, dopo aver sostenuto un colloquio per capire se abbiano attitudine, motivazione, voglia e tempo per un lavoro di tale spessore: l’interfacciarsi con donne maltrattate. Insieme alle volontarie e alle assistenti sociali, come Carolina, si occupano di questo progetto anche 6 legali (civili e penali) e 3 psicologhe – anch’esse tutte volontarie – che offrono un percorso di dieci incontri con le donne che richiedono assistenza.

Oltre al prezioso e indispensabile supporto umano, il CADOM è sostenuto da DIADE, progetto di Regione Lombardia con lo scopo di provvedere a rafforzare i nuovi strumenti di aiuto.

Il CADOM lavora in rete sia con Carabinieri che con Pronto Soccorso. In particolare, in quest’ultimo, troviamo “Percorso Rosa”. Questo consiste in un trattamento speciale per la donna maltrattata, che giunge in Pronto Soccorso con codice giallo, riceve un trattamento dall’approccio più umano e viene poi segnalata ai centri anti violenza come il CADOM. La segnalazione è solo un invito alla donna maltrattata: la voglia di cambiamento intraprendendo questo percorso deve partire dalla sua volontà: le cose imposte dall’alto non servono a nulla. Spesso sono i figli a spingere la donne a far denuncia con tutto quello che ne consegue.

In che condizioni si presentano le donne vittime di violenza e quali sono i vostri primi interventi?

Il CADOM non lavora sulla contingenza e l’urgenza, non essendo un pronto intervento. Arrivano donne che non necessitano di cure mediche immediate perché già passate dal Pronto Soccorso, dove viene fatta una denuncia. Il primo intervento è basato sull’ascolto e sulla proposta di un percorso di cambiamento, che nasce spesso dalla stanchezza della donna, che non riesce più a sopportare la situazione con il compagno o marito carnefice.

Qual è la spinta che dà a una donna la forza di reagire e di chiedere aiuto?

Come già accennato i figli sono il fulcro del desiderio di cambiamento, nonché la stanchezza e l’esasperazione di sopportare continui soprusi. Non dobbiamo dimenticare una crescente consapevolezza sociale che passa anche tramite i mass media. Un tempo infatti la violenza domestica era cosa di ordinaria frequenza e non veniva denunciata, anzi giustificata perché ritenuta normale. Ora il fenomeno ha iniziato a far sentire la propria voce, grazie sia alla crescente emancipazione della donna, sia all’evoluzione delle norme giudiziarie.

Tanti uomini violenti hanno una facciata sociale perfetta e questo fa parte del loro essere manipolatori, quando invece, nell’ambito domestico, trattano la donna come un oggetto, una proprietà da sottomettere, che non deve stare con nessun’altro, pena la violenza di vari tipi.

Oltre alla violenza fisica esiste quella psicologica. Di quali forme, di quest’ultima, siete a conoscenza?

Violenza psicologica è trattare la donna come un oggetto di proprietà. Minacce, ingiurie che portano ansia nella donna, che si sente costretta a fare solo ciò che gli è permesso dall’uomo.

Esistono altre forme di violenza, come quella economica: costringere la donna o a non lavorare, o ad affidare all’uomo tutti i proventi della sua occupazione così che sia solo lui l’unico gestore.

Esiste anche lo stalking, da poco riconosciuto reato per legge, che consiste nel costringere la donna a cambiare il proprio stile di vita per pedinamenti, minacce, continue interferenze violente nella sua vita.

Ti è capitato di occuparti di donne molestate o ricattate in ambito lavorativo?

Personalmente no, ma ci sono state casistiche al CADOM di Monza in cui è subentrata una collaborazione con i sindacati.

Come si è evoluto il fenomeno della violenza negli anni?

L’evoluzione consiste nella sensibilizzazione rispetto alla violazione dei diritti umani. La violenza intra-famigliare è sempre esistita, ma con le nuove normative è aumentata la consapevolezza.

L’obiettivo finale dovrebbe essere quello della prevenzione: educare l’uomo rispetto a condotte violente, ma anche la donna a non mettersi in una condizione di sottomissione. La prevenzione parte dall’educazione.

Il maschilismo nella società porta gli uomini a diventare violenti?

È, per prima cosa, una questione di educazione. Il bambino impara dall’esperienza vissuta in casa, la violenza assistita è un trauma, e in tal caso deve essere aiutato a rielaborarlo, altrimenti potrebbe ripetere gli stessi atteggiamenti in età adulta. Si cerca di aiutare il bambino a elaborare il problema nella famiglia, separarlo da essa è l’extrema-ratio.

Anche gli uomini subiscono violenza? Possono eventualmente rivolgersi al CADOM?

Gli uomini vittime di violenza sono circa il 3% della casistica, ma noi del CADOM ci occupiamo della sola violenza alle donne. Stanno nascendo associazioni – come Plurale Maschile – dedicate agli uomini violenti per divenire consapevoli dei propri comportamenti e cercare di cambiarli. Nelle nostre attività c’è una collaborazione abbastanza stretta.

Quale preparazione occorre per poter fare il tuo lavoro?

Io sono un’assistente sociale. In realtà la mia prima laurea è stata in Diritti Umani, ma non aveva molto a che fare col mio lavoro attuale. Da alcuni esami è scaturito, però, l’interesse per questo campo. Ora sono iscritta all’albo professionale degli assistenti sociali.

Quali motivazioni ti hanno portato a scegliere un mestiere così delicato, essendo tu stessa donna?

La prima motivazione, ovviamente, è che sono io stessa una donna. Ho scelto lo studio dei Diritti Umani anche perché vengo da un paese – la Colombia – dove il rispetto di questi diritti è scarsissimo, e tra le prime a farne le spese sono le donne. Il mio piccolo obiettivo è aiutarle a uscire da dinamiche violente, partendo dall’acquisizione della consapevolezza di poter essere indipendenti, di avere un’alternativa di vita, di valere quanto gli altri.

Come riesci a mantenere la distanza emotiva rispetto alle esperienze delle donne che aiuti?

Questo si impara anche attraverso i corsi di formazione, ma una certa empatia e vicinanza emotiva sono necessarie. Se mi lasciassi scivolare tutto addosso non potrei capire, immedesimarmi. Bisogna trovare la giusta distanza, un compromesso.

 

 

 

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