Che fatica essere genitori

di Francesca Radaelli – Fotografie di Dario Erba

La fatica di essere genitori come una delle esperienze umane di cui prendersi cura. È stato questo il tema che ha concluso la Settimana della Carità 2024, con il convegno di sabato 24 febbraio presso la parrocchia Sacra Famiglia di Monza, dal titolo “Quando l’umano si identifica con la fatica dei genitori”. Dopo i quattro incontri in diretta online dedicati al disagio dei giovanissimi, il focus della riflessione si è spostato sui loro genitori, i loro dubbi e soprattutto le loro fatiche. Nel tentativo di attuare quelle pratiche di condivisione e alleanza educativa che sono state auspicate nel corso degli incontri online dedicati ai giovani.

Condotto dal giornalista Fabrizio Annaro, il convegno si è aperto con una conversazione tra quattro genitori che, a partire dalla lettura un articolo del giornalista Marco Erba sul rapporto con la figlia adolescente, sono stati chiamati a confrontarsi sul proprio ruolo educativo e sul modo in cui interpretarlo al meglio.

Il tavolo dei genitori

A questo proposito c‘è chi sottolinea la fatica del cambiamento nella relazione con i figli quando diventano adolescenti e il fatto che le fatiche più difficili siano legate alla necessità di essere presenti nella loro vita, cercando di offrire dei valori e un esempio, senza però essere troppo critici sui loro comportamenti. “Sospendere il giudizio” sui propri figli, però, non sempre è facile per un genitore, sottolinea qualcun altro, né lo è gestire da un lato l’ansia da prestazione per il ruolo genitoriale e dall’altro quella per il futuro dei propri figli. La fatica più impegnativa sembra essere quella del dialogo durante l’adolescenza, poiché anche quando il dialogo c’è bisogna trovare il modo giusto per portarlo avanti. A volte i figli non si sottraggono al dialogo ma sono aggressivi, provocatori oppure imbarazzanti e imbarazzati rispetto a certi argomenti: forse anche per sentire la presenza del genitore come punto fermo.

Da sinistra: Fabrizio Annaro, Elisabetta, Omar, Carolina e Davide

Controllo o anarchia: questo è il dilemma. E non solo questo…

È meglio assumere il ruolo di punto fermo dal punto divista dell’autorità morale ed educativa, o mettersi completamente a nudo nel dialogo con i figli adolescenti, parlando loro con schiettezza anche dei propri errori e delle proprie fragilità?

Come rispondere a domande del tipo “Ti sei mai fatto una canna?”

O forse l’ideale non sarebbe perseguire una sorta di “anarchia educativa”, dando ai figli la completa libertà di autodeterminarsi come preferiscono?

Sono solo alcuni dei dilemmi che progressivamente si presentano in questo dialogo tra genitori.

Da sinistra: Fabrizio Annaro, Elisabetta, Omar

Altre domande emerse nel corso dell’evento, anche da parte del pubblico, sono legate alla crisi della figura del padre, al tipo di linguaggio da usare con i ragazzi, al ruolo della famiglia e alla trasformazione della sua rappresentazione oggi. Domande a cui forse ciascun genitore è chiamato a dare una sua risposta, perchè come ribadito più volte “una ricetta giusta non c’è”.

E alla domanda su come vedano il futuro dei propri figli, la risposta è che il futuro è adesso, che bisogna spingere i ragazzi a concentrarsi sul presente e sul quotidiano. O almeno cercare di non trasmettere le proprie preoccupazioni a chi il futuro, in fondo, se lo costruirà, passo dopo passo.

Le molteplici fatiche dei genitori

Silvia Masiero, pedagogista del Centro Orientamento Famiglia, interviene nella seconda parte del convegno, ampliando l’orizzonte sulla base della propria esperienza di ascolto delle famiglie. Sottolinea innanzi tutto come il tema della fatica dei genitori sia molto delicato e il rischio, nell’affrontarlo, sia quello di esprimere giudizi aggressivi ed esporre il genitore a stimoli negativi. “Eppure non c’è un modo giusto o sbagliato di fare il genitore, ma le scelte educative possono differire in base ai valori del genitore stesso”, spiega la pedagogista. “Spesso ai genitori arrivano suggerimenti dall’esterno, ma non bisogna sempre applicarli acriticamente, altrimenti si rischia di diventare la caricatura di sé stessi”.

Fabrizio Annaro e Silvia Masiero

Riprendendo il concetto di “fatica” delle scienze dei materiali, Silvia Masiero sottolinea che, se la fatica continua a cui è sottoposto il genitore, come quella a cui sono sottoposti i materiali,  può portare a un indebolimento progressivo, è però possibile distribuire meglio il carico, anche chiedendo aiuto all’esterno: “La condivisione, la rete, spesso può essere una soluzione per alleviare e condividere la fatica del genitore”.

Silvia Masiero

La pedagogista presenta poi una serie di pensieri raccolti nel corso dei propri colloqui con genitori e figure educative, che evidenziano ad ampio raggio alcune delle “fatiche” genitoriali più impegnative.

A partire dal momento della nascita di un figlio, quello in cui “scoppia la bomba”: cambiano le dinamiche della coppia, che diventa famiglia, si è circondati da consigli non richiesti, iniziano le prime preoccupazioni economiche. Poi c’è la fase critica del “debutto in società” del bambino, quando inizia a frequentare la scuola: bisogna fare i conti con la competizione e la valutazione, con il confronto con i compagni e con altri genitori.

“Soprattutto le donne vivono con fatica la necessità della presenza”, spiega Silvia Masiero. “Usano la parola “gestione” per parlare della vita familiare di cui si fanno carico, finiscono per sentirsi spesso in colpa, non abbastanza capaci. I padri invece spesso si lamentano di venire poco coinvolti nel rapporto con la scuola, o per il ruolo del ‘poliziotto cattivo’. Anche il ruolo dei nonni spesso è problematico e manifesta il problema di un ulteriore conflitto tra generazioni sul tema dell’educazione”. La pedagogista rileva anche le voci degli insegnanti, che un tempo erano certi della propria autorità e invece oggi i genitori “se li devono conquistare”, e dà spazio alle fatiche delle famiglie straniere, spesso disorientate nell’approccio a un mondo che non conoscono, a partire dalla scuola dei propri figli.

“La fatica può essere anche un’occasione per prendersi un momento per staccare, mettersi in stand by, prendersi del tempo”, evidenzia in conclusione Silvia Masiero, auspicando un dialogo pubblico su questi temi che possa coinvolgere anche i ragazzi.

Fragilità e senso di colpa

L’ultimo intervento è affidato a Sergio Premoli, psicologo, psicoterapeuta e autore del libro “I piedi del figliol prodigo”. Il disagio dei figli è frutto del disagio dei genitori, spiega lo psicanalista: “I genitori sono fragili, questa fragilità è percepita sempre come qualcosa di negativo, anche se in quanto uomini non possiamo fare a meno di essere fragili”. Per descrivere l’impotenza di fronte al desiderio di essere forti Sergio Premoli cita San Paolo: “Mi ritrovo a fare il male che non voglio e a non fare il bene che voglio”.  

La forma di fragilità che però possiamo tenere a bada è quella legata al senso di colpa: “Rovina l’esistenza, toglie la bellezza del vivere, a volte porta alla morte”, spiega lo psicanalista. “Discendiamo da una cultura che per secoli è stata quella della colpa associata al peccato e alla vergogna. Oggi gli adolescenti non vivono più il peccato come colpa, ma abbiamo trasmesso loro il concetto di colpa associato alla vergogna. Questo sentimento distruttivo è all’origine di molti disagi dei giovanissimi: l’anoressia è legata alla vergogna del proprio corpo, la chiusura in sé stessi alla vergogna del rapporto con l’altro, il bullismo è la proiezione della propria vergogna sull’altro”.

Da sinistra: Fabrizio Annaro, Sergio Premoli, Silvia Masiero

Premoli fa riferimento alla psicanalisi per spiegare l’origine del senso di colpa: “Nasce dall’interiorizzazione da parte del bambino di indicazioni morali, trasmesse con l’educazione. Da qui si sviluppa il super-io, la coscienza morale e con essa il senso di colpa”. Ma lo psicanalista, da non credente, prende come punto di riferimento anche dal Vangelo: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato. Lo dice il Vangelo di Luca. Non vuol dire che non bisogna distinguere tra bene e male, ma che bisogna distinguere tra giudizio di fatto e giudizio di merito”.  

Il giudizio di fatto valuta il valore oggettivo di un’azione, se è lecita o illecita, se è utile o dannosa. Il giudizio di merito riguarda invece la persona che ha messo in atto quell’azione. “Di fronte a un errore, un’azione negativa noi siamo abituati a considerare malvagia la persona che lo ha commesso: la condanniamo. Il Vangelo invece dice: non usate il giudizio di fatto per condannare moralmente chi ha compiuto un’azione sbagliata, ma perdonate”. È un’indicazione che secondo Sergio Premoli bisognerebbe attuare anche nei confronti di noi stessi. “Quando facciamo l’esame di coscienza e decretiamo che abbiamo sbagliato, dal punto di vista psicologico c’è una ricaduta importante, che si chiama angoscia per senso di colpa. Il problema è: come me ne libero? La strategia che abbiamo sviluppato prevede pentimento, confessione, richiesta di assoluzione, proposito, penitenza. Secondo la psicanalisi però c’è un percorso più conveniente per giungere allo stesso risultato”.

Sergio Premoli

Riparare e perdonare

La strategia consiste nel non legare l’errore al senso di colpa, non legare il concetto di peccato a un concetto di colpa, ma al concetto di danno. “Se ho sbagliato non devo dolermi della mia colpevolezza soggettiva, di aver macchiato la mia immagine. Devo invece chiedermi quale danno è stato provocato: questo vuol dire che c’è la possibilità di ripararlo. La psicanalisi propone di riparare il danno provocato agli altri, non di affliggere sé stessi con il senso di colpa”. Uno spirito che si trova anche nell’episodio evangelico della lapidazione dell’adultera, in cui Gesù si oppone al “giustizialismo” e al concetto di espiazione della peccatrice.  “Il dolore non deve essere usato per riparare la propria immagine ideale ma per riparare il danno fatto all’altro. Allo stesso modo il pentimento di Pietro è diverso dal rimorso di Giuda. Pietro non si è condannato, ha accettato la prospettiva del perdono e della riparazione. Anche noi siamo chiamati a essere portatori di perdono per chi ci ha ferito. Se chiedo perdono all’altro mi impegno a perdonare, come è detto chiaramente nel Padre Nostro. Il danno non è mai completamente riparabile: lì si apre lo spazio del perdono”.

Educare all’empatia, anche verso chi sbaglia

A partire da queste considerazioni Sergio Premoli propone una prospettiva educativa basata sull’empatia: “In famiglia dobbiamo decidere quale clima far respirare ai nostri figli, di fronte ai mali del mondo. Bisogna trasmettere la capacità di distinguere bene e male, ma al tempo stesso evitare il giudizio: evitare di condannare moralmente qualcuno che ha commesso un atto sbagliato, ma di cui non conosciamo la storia e le ragioni. È bene sviluppare un sentimento di empatia verso chi sbaglia, pensare noi stessi come fallibili e trasmettere anche ai figli l’empatia per le vittime e i carnefici. Del resto, anche il Papa dice che noi tutti siamo peccatori”.

Lo psicanalista parla di una giustizia penale che, contro lo spirito della Costituzione, è diventata punitiva, non riparativa. “A livello sociale passa l’idea che quando qualcuno sbaglia debba espiare.  E anche con i figli spesso si emette un giudizio di condanna, e di conseguenza il figlio si sente accusato e sta sulla difensiva”. Invece, quando un figlio sbaglia non bisogna fargli vivere errore come colpa, ma come un danno riparabile o comunque perdonabile.

L’incontro si conclude con la suggestione della parabola del figliol prodigo: esempio di massima fragilità, di fronte a cui il padre rispetta la libertà del figlio, non ne giudica le azioni, ma si apre all’accoglienza. “Non fate mai vergognare i vostri figli”, esorta Sergio Premoli in un monito finale ai genitori. “La vergogna è un sentimento violentissimo, se si interiorizza questa immagine di sé è difficile liberarsi da questa ferita”.

 

Per riascoltare gli interventi del convegno:

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