di Alfredo Somoza
Dopo la spettacolare esposizione mediatica degli ultimi anni, l’unico Paese ufficialmente socialista dell’emisfero occidentale, Cuba, è tornato nell’oblio. Sono stati anni intensi, gli ultimi due, con L’Avana sempre in prima pagina: dalla mediazione riuscita di papa Francesco – che ha portato alla visita di Barack Obama e alla fine, per quanto non formalizzata, delle ostilità tra i due vicini del mare dei Caraibi – alla pace tra governo colombiano e guerriglia delle FARC firmata proprio nella capitale cubana.
Sempre a Cuba si sono abbracciati papa Francesco e il patriarca della Chiesa russa Kirill, ponendo le basi per un riavvicinamento fra due delle tre grandi correnti del Cristianesimo europeo, divise da mille anni. Tra il novembre e il dicembre 2016 l’isola ha ottenuto visibilità globale ancora una volta, sia pure per un evento meno felice, la morte del comandante Fidel Castro, che ha generato un’ondata di commozione in tutto il mondo. E ha sollevato interrogativi sulla transizione guidata dal fratello Raúl, con la sua promessa di lasciare il potere nel 2018 e una successione ancora da definire.
Ecco, tutto questo sembra dimenticato da quando alla presidenza degli Stati Uniti è stato eletto Donald Trump, che è riuscito a ottenere parte del voto cubano della Florida promettendo di fare marcia indietro rispetto alle concessioni di Obama. In realtà, per ora il bersaglio latinoamericano di Trump è un altro, il Messico. Su Cuba, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha solo detto che non ci saranno nuove aperture finché non cambierà la situazione politica dell’isola. Che è molto ma anche poco.
Molto perché appare piuttosto improbabile che, nell’immediato, a Cuba possa cambiare qualcosa. Poco perché nel frattempo sull’isola stanno arrivando migliaia di turisti statunitensi portati dalle navi da crociera, oppure dai voli di linea dell’American Airlines. Si sta verificando cioè quanto auspicava il mondo degli affari di Wall Street, che aveva spinto Obama a rivedere la fallimentare politica statunitense nei confronti di Cuba.
Non è che prima L’Avana fosse isolata dal mondo, o avesse difficoltà a trovare capitali internazionali. Francia, Canada, Italia, Spagna, Brasile, Cina sono da anni grandi investitori tramite le loro compagnie transnazionali, sempre ben accolte a Cuba: soprattutto nel settore turistico, diventato trainante per il resto dell’economia locale. Ora anche le imprese a stelle e strisce chiedono la loro parte, nei settori delle comunicazioni, dei trasporti e ovviamente del turismo. Difficilmente Trump potrà, o vorrà, fermare questo fiume in piena che considera strategico il piccolo Paese caraibico. Come secoli fa lo era per la Spagna imperiale, come lo è stato fino agli anni ’60 per gli stessi Stati Uniti e più recentemente per il Vaticano e per diversi Paesi europei.
Come stanno incidendo sulla vita dei cubani le riforme portate avanti ormai da anni da Raúl Castro? In modo molto diversificato, in una società che si sta lentamente polarizzando. Da una parte, la maggioranza dei cubani che lavora per lo Stato percepisce stipendi ridicoli, e deve arrangiarsi come può per arrotondare; dall’altra, una minoranza vive una fase di veloce crescita, ora che si può lavorare legalmente come affittacamere o ristoratori: in un giorno, queste attività consentono di guadagnare l’equivalente dello stipendio mensile di un medico.
Questa dinamica, che si avverte soprattutto nelle località turistiche, non ha ancora intaccato la struttura di una società che vive serenamente, anche se spesso in povertà, grazie a una rete di welfare universale unica nel suo genere in America Latina. Nell’unico Paese dell’area dove esiste sì la povertà, ma non la miseria, cominciano però a vedersi differenze rilevanti nel potere d’acquisto tra le famiglie inserite nel business del turismo e quelle escluse.
Per Cuba le sfide non sono state mai semplici. E proprio quando pareva che si potesse avvicinare un lieto fine nel tormentato rapporto con il potente vicino del Nord, ecco di nuovo l’incertezza. La differenza rispetto al passato è che oggi, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla fine dell’URSS e con il Venezuela in pieno caos economico e politico, Cuba riesce comunque a trovare le risorse necessarie per mantenere orgogliosamente in vita quel suo “socialismo tropicale” con fortissime venature nazionalistiche.
Tuttavia i miti di Martí, del Che e di Fidel non bastano più: Cuba deve reinventarsi ogni giorno. La grande sfida che l’attende ora, da quando Internet si è diffusa sul territorio nazionale, è quella del pluralismo politico, senza il quale tutto ciò che è stato il lascito positivo della rivoluzione rischia di essere vanificato.