Chinyery e la giusta lezione

di Enzo Biffi

ec1fce41b1c1a74b0a324521de835d48_MGTHUMB-INTERNALa violenza brutale è portatrice anche di germi infetti capaci di contaminare le nostre anime, e ci fa vendicativi, e ci fa brutti.

Questo giornale, per scelta, isola la cronaca, già troppo celebrata quasi sempre a sproposito ma, il rispetto che porto verso pochi ma saldi e universali valori mi induce, non tanto ad unirmi al coro del disprezzo, quanto a cercare una piccola luce di speranza. Direte voi: operazione alquanto coraggiosa, se non impossibile. Eppure, nascosto fra le pieghe della follia di chi usa la violenza per gioco ( si dice ultrà ) contro chi dalla violenza deve difendersi da sempre ( si dice profugo ) si può vedere, come sbirciando dall’unico piccolo foro praticato in un immenso palcoscenico nero, un nuovo possibile orizzonte, una nuova possibile storia da scrivere, una fede necessaria all’umana vita.

Chinyery nel pozzo oscuro della violenza ha visto cadere il suo paese, i suoi primi affetti, la sua gente, il suo compagno e se stessa. Tutto fin ora, sul quaderno dei suoi giorni, è stato scritto col sangue, col sudore e con la paura. Eppure forse proprio lì, dove il vivere è stato amaro, se ne capisce la grandezza; la vita non chiede nient’altro che la vita, come principio assoluto, come ovvio destino. Ecco cosa deve averla spinta, in maniera immagino naturale, a voler donare gli organi del suo compagno. Organi massacrati dall’indecenza e dalla ottusa vigliaccheria di chi l’unica violenza che conosce è quella che provoca egli stesso agli altri.

Poco importa se un’altrettanta ottusa e miope burocrazia glielo impedisce, a noi basta sapere che il sole torna sempre anche dopo la notte più scura. A me basta immaginare, non con poco sprezzante piacere, che cuore e polmoni donati con la naturalezza e l’istinto tipico di una “scimmia”, potessero salvare una madre, dar nuovo respiro ad un fratello, un figlio…di quello “scimmione” che si dice ultrà.

Sai che piacere, sai che bella “lezione” più della giusta galera, più dell’ovvio giudizio divino, la perenne condanna di gratitudine verso l’oggetto stesso del proprio demente disprezzo.

Enzo Biffi

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