di Roberto Dominici
La conoscenza dei dati epidemiologici è assolutamente importante per stabilire quanto sia grave una malattia infettiva, e quindi quali misure attuare per fronteggiare il problema. Il Covid 19 non fa eccezioni; in particolare conoscere la trasmissibilità o contagiosità dell’infezione e la letalità della malattia hanno un ruolo di rilievo.
Il tasso di letalità corrisponde al numero di decessi correlati alla patologia diviso il numero di casi totali. Un calcolo in apparenza semplice, eppure valutare il tasso di letalità del virus responsabile del Covid-19 è tutt’altro che facile. La letalità del Covid-19 varia molto da un luogo all’altro e dipende da diversi fattori. È correlato in particolare all’età (più si è anziani più è elevato), quindi alla distribuzione demografica.
Questo aspetto rende complicato perfino fare delle stime europee perché l’età media non è la stessa tra i vari paesi. Comunque si calcola un range che va dallo 0,3% all’1%. Nel Regno Unito siamo intorno allo 0,9%. Naturalmente India e Africa, in cui la popolazione è molto più giovane, non hanno lo stesso tasso di letalità dell’America del nord, del Giappone e di molti Paesi Europei dove la popolazione è più anziana e con più co-morbidità.
In Lombardia, per esempio, è stato calcolato un tasso di letalità dello 0% fino ai 40 anni e del 16,6% tra le persone di più di 80 anni. Le stime dell’epidemiologia di questa patologia sono state calcolate in modo piuttosto accurato. A febbraio/marzo è stato immaginato un range, per quanto riguarda la letalità, che variava dallo 0,2 all’1%. Intorno ad aprile/maggio sono state confrontate queste stime con gli studi clinici con risultati ottenuti piuttosto coerenti.
Empiricamente, il modo migliore per valutare l’epidemiologia della malattia sarà l’uso dei test sierologici estesi, per l’analisi di sieroprevalenza nella popolazione che permette di avere un’idea di quante persone sono entrate in contatto con il virus, sviluppando anticorpi e valutare quindi l’ampiezza della distribuzione e circolazione del virus nella popolazione. Inizialmente ci sono state delle sovra-stime e poi delle sotto-stime della letalità di Sars-Cov-2 e questi dati, per quanto affidabili, non sono definitivi.
Ma perché è così difficile calcolare il tasso di letalità del coronavirus ? Prima di tutto molti soggetti sono asintomatici, quindi il numero di infetti vero è molto più elevato del numero di casi confermati. Bisogna poi tener conto del fatto che l’epidemia è in corso, quindi non si misura esattamente il numero di morti rispetto agli infetti, perché i morti di oggi si sono infettati nel corso delle settimane e dei mesi passati e non si conosce l’esito delle infezioni attuali. Quindi per effettuare questo calcolo occorrono dei modelli statistici, delle distribuzioni che fanno una stima del tempo che intercorre tra l’infezione e il decesso.
C’è anche una quota d’incertezza dovuta a come ogni Paese valuta il numero di casi. Le prime stime cinesi sul tasso di letalità erano molto alte probabilmente perché il numero dei casi era sotto-stimato. Ci sono paesi in cui vengono effettuati screening estesi, altri in cui questo non avviene e magari vengono considerati come infetti solo i pazienti ospedalizzati. All’inizio del mese di Ottobre Mike Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell’Organizzazione mondiale della Sanità, ha affermato che, secondo le loro stime, il virus potrebbe aver infettato, in questi mesi, il 10% della popolazione mondiale, ovvero 780 milioni di persone.
Se si rapporta questa stima al numero dei morti sinora registrato (circa 1,1 milioni), il tasso di letalità mondiale medio si assesterebbe sullo 0,14%. Le stime dell’OMS sono ragionevoli, ma il tasso di letalità che emergerebbe dal calcolo sembra troppo basso. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che potrebbero esserci state delle difficoltà nella valutazione del numero dei decessi al livello globale, in particolare in America del Sud e in Africa e in generale in quei Paesi che vengono definiti a medio e basso reddito.
Sono usciti di recente degli articoli che suggeriscono che molti decessi associati al Covid 19, in alcuni Paesi (ad esempio in Siria) non sono stati segnalati nei rapporti ufficiali. Se si prendesse in considerazione anche questo aspetto, dall’1,1 milioni di morti, si potrebbe passare ad un numero più alto, forse si arriverebbe ad 1,6-1,7 milioni.
In ogni caso ritengo che lo 0,14% sia davvero un tasso troppo basso e che dovremmo aspettarci un tasso di letalità di 0,6% circa se si considera tutto il mondo. Quindi, comunque, nonostante il fatto che i casi reali sono molti di più di quelli confermati, non c’è paragone tra Covid-19 e influenza. Certo, l’impatto dell’influenza varia molto da un anno all’altro e a volte può essere molto grave, basta ricordare cosa ha fatto la Spagnola. La letalità annuale comunque è dello 0,1%, mentre per il Covid-19, come dicevamo, siamo intorno allo 0,6%.
C’è poi un’altra importante differenza: in entrambi i casi la gravità e la mortalità dell’infezione è legata alla presenza di co-morbidità precedenti. Il Covid-19, però, provoca effetti a lungo termine anche nelle persone che prima erano sane, come danni polmonari, ictus e insufficienza renale. La gravità delle due patologie è molto diversa. In un articolo pubblicato di recente sulla rivista Lancet sono stati confrontati i dati dell’influenza del 2009 con la mortalità del Covid-19 in Lombardia. Ne emerge che il Covid-19 in quella realtà è stato 100 volte più mortale.
Quindi, almeno in una popolazione in cui l’età media è elevata, si tratta di una patologia molto più severa dell’influenza stagionale. Ci aspetta un lungo inverno, e le stime dell’Oms vogliono dire che dopo 10 mesi il 90% della popolazione mondiale continua a non avere nessuna immunità contro questo virus: l’unica via d’uscita resta il vaccino.
Nel frattempo bisogna continuare a fare ciò che siamo facendo: mascherine, distanze, evitare situazioni di aggregazione, tamponi, tracciamento dei contatti. Abbiamo capito quali misure funzionano e quali no, ed è importante continuare con i test e il contact tracing. È difficile dire cosa sarebbe giusto fare e ovviamente. Anche in questo caso, bisognerebbe fare delle valutazioni che variano da un Paese all’altro. Il virus Sars-Cov2 nasconde ancora molti punti oscuri sulle sue origini, le sue armi e punti deboli, e ancora non vi è certezza sulle sue varianti, come l’ultima che sarebbe nata in Spagna e che ora sarebbe diffusa in tutta Europa. Resta ancora un mistero quale sia stato l’animale che ha consentito il salto di specie dal pipistrello all’uomo, se e quanto gli asintomatici possono contagiare, perchè in alcuni casi non dà nemmeno sintomi e in altri uccide e quanto dura l’immunità data dagli anticorpi.
La sequenza genetica del virus SarsCoV2 indica una chiara parentela con il pipistrello del genere Rhinolophus, più noto come ‘Ferro di cavallo’. Si pensava che il pangolino fosse l’animale che ha consentito il salto di specie, ma gli studi condotti lo hanno ‘scagionato’. Il virus, grazie alla sua proteina Spike, riesce ad aggredire le cellule umane attraverso il recettore ACE2, che si trova in gran quantità nei tessuti di cuore, intestino, polmoni e fegato. Molto presto è emerso che si tratta di una malattia molto più aggressiva perchè il recettore ACE2 si trova sulle cellule di molti organi.
Dopo le prime settimane di pandemia si è capito che la Covid-19 non è una malattia respiratoria ma una malattia sistemica, che colpisce e produce danni a cuore, polmoni, fegato, reni, sistema endocrino e cervello, e cancella senso del gusto e olfatto. La carica virale è molto alta prima che compaiano i sintomi. Le tracce della sua presenza possono persistere per diverse settimane e perfino mesi. Uno studio italiano dell’Azienda Unità Sanitaria Locale-IRCCS di Reggio Emilia su oltre mille pazienti positivi sintomatici ha dimostrato che in sei casi su dieci il virus viene eliminato dall’organismo entro 30 giorni dal primo test e all’incirca 36 giorni dall’insorgenza dei sintomi. Per quanto riguarda l’immunità, essa c’è, ma non è ancora chiaro quanto tempo duri.
Secondo uno studio dell’Imperial College di Londra gli anticorpi si riducono rapidamente in tre mesi, soprattutto fra gli anziani e asintomatici, mentre secondo il Mount Sinai Hospital di New York il 90% dei malati che ha avuto una forma lieve o moderata di Covid-19 mantiene una forte risposta degli anticorpi, per almeno cinque mesi. Un aspetto accertato è che ci si può ammalare due volte di Covid. Tra i fattori di rischio includiamo l’obesità e il diabete di tipo 2 che aumentano il rischio di avere forme gravi di malattia.
5 novembre 2020