di Claudia Terragni
Giovedì 11 Agosto 2016. Mohammed ha deciso di cantare per noi. Dopo una decina di canzoni di De Andrè e Beatles strimpellate con la chitarra, è il suo turno. Ci ha raggiunto dopo cena nel nostro appartamento poco fuori Beirut. È un amico delle coordinatrici del Cantiere della Solidarietà di Caritas a cui sto partecipando da ormai più di una settimana.
In un momento tutti tacciamo e cala il silenzio sul suono del derbake e sulle nostre voci non troppo intonate. Siamo in più di dieci ma nessuno fiata. Mohammed chiude gli occhi e si concentra. Non dev’ essere facile.
Inizia a cantare. Intona un canto del Kurdistan, della sua terra lontana. La sua voce morbida ci avvolge e ci culla. Una dolce melodia lascia riaffiorare i profumi, i colori e gli affetti di casa. Non serve comprendere il significato di questo malinconico fluire di parole arabe, lo capiamo lo stesso. Come per incanto, d’un tratto mi manca mia madre. Deve mancare anche a lui la sua, lontana e inafferrabile come la sua terra. E sento che in qualche modo sento la nostalgia anche della sua, di madre, di luoghi che non ho mai visto, di sapori che non ho mai provato, di gioie che non ho mai vissuto e ricordi che non ho mai costruito. Mi manca il suo Kurdistan, non so in che modo, grazie a Mohammed.
È un giovane Iracheno, con tante storie da raccontare. La sua in primis non si può dire sia stata poco travagliata. Viveva a Halabja, città curda tristemente famosa per l’attacco chimico inflitto dall’Iraq nel 1988. Ha trascorso anni come rifugiato in Iran, seguiti da viaggi, studi non troppo lineari e mestieri diversi. Adesso lavora per l’UNHCR nel Libano settentrionale. Ci racconta nel dettaglio del suo lavoro e dei vari obbiettivi che l’agenzia per i rifugiati dell’ONU si pone in Libano. Lo sappiamo bene anche noi italiani, che l’accoglienza non è certo una questione semplice. Ma i problemi di questa nazione sono di tutt’altra dimensione.
La popolazione del Libano si aggira intorno i 5.9 milioni e quella della Siria intorno ai 23 milioni. Dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, si contano 6.6 milioni di sfollati interni e 4.815.540 profughi siriani in medio oriente. Di questi, quelli registrati in Libano sono 1.033.513: un sesto della popolazione libanese. In cinque anni la popolazione è cresciuta di un terzo. Da notare che questo è il numero dei profughi registrati, in realtà probabilmente sono più del doppio. Dei profughi siriani il 42% è in età scolare.
La stragrande maggioranza dei profughi siriani sono irregolari (qualcosa come il 90%). Certo, praticamente nessuno si può permettere di fare altrimenti! Ognuno di loro dovrebbe pagare 200 dollari per un permesso di soggiorno di un anno, poter mostrare un contratto d’affitto in regola, assicurare di vivere sul territorio solo con l’intento di spostarsi entro un anno in paesi terzi. E non lavorare. In più dal Maggio 2015 sono state ufficialmente chiuse le registrazioni dell’ UNHCR su richiesta delle autorità politiche. Chiudere le registrazioni significa disincentivare l’ingresso perché non è più possibile ricevere le agevolazioni fornite dall’agenzia ONU. In realtà si continua a registrare con altri metodi.
Tutto ciò può essere ricondotto al fatto che il Libano non ha firmato l’ormai nota Convenzione di Ginevra sullo statuto del rifugiato: non riconosce i siriani come rifugiati e per questo potrebbe non impegnarsi a mantenere i diritti riconosciuti loro. Tuttavia fortunatamente il Paese dei cedri è una delle nazioni segnatarie della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che riprende gli stessi ideali della convenzione del 1951 nell’articolo 33. Secondo il Principio di non respingimento: “nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o alle sue opinioni politiche”. Inoltre dal 2014 sono in vigore il Regional Refugee and Resilience Plan (3RP), accordo tra governo, Nazioni Unite, associazioni intergovernative e non governative, e il Lebanon Crisis Response Plan (LCRP), accordo bilaterale tra governo e UNHCR, che si impegnano a garantire protezione e assistenza ai rifugiati, rafforzando le capacità delle istituzioni dei diversi paesi della regione a far fronte alla crisi.
La situazione è articolata e profondamente radicata nel territorio. L’emergenza dei siriani si aggiunge alla già complicatissima situazione del Libano, che si ritrova ad affrontare (oltre la già complessa divisione tra cristiani maroniti, sciiti e sunniti libanesi) circa 400.000 palestinesi che vivono nei 12 campi profughi gestiti dall’UNWRA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees).
I siriani non sono visti di buon occhio né dai libanesi né dai palestinesi: qualsiasi cosa accada “è colpa dei siriani”. Sono in molti a temere che si ripresenti una situazione simile a quella che ha contribuito allo scoppio della Guerra Civile: da quando la sede dell’OLP fu spostata in Libano, la presenza sul territorio di un popolo straniero armato fu determinante per lo scoppio della guerra. Si teme che i siriani portino la guerra in casa.
Inoltre i nuovi arrivati lavorano illegalmente a prezzi bassissimi (se ne vedono parecchi ai bordi dell’autostrada, pronti a lavorare alla giornata) e questo ha comportato un picco della disoccupazione libanese e l’abbassamento dei salari. A ciò si aggiunge il fatto che per questioni economiche, buona parte dei siriani abita nei campi palestinesi già sovraffollati. Come sempre accade poi, le emergenze catalizzano tutte le attenzioni, anche delle associazioni umanitarie che tendono a incanalare fondi e energie a favore della crisi del momento, togliendo finanziamenti e risorse a chi è in difficoltà da anni. È semplice dimenticarsi dei palestinesi, distratti dall’allarme siriano. Ma lo stato dei palestinesi in Libano rimane grave. Seppure i primi arrivi risalgano al 1948, seppure rappresentino il 10% della popolazione, non godono di cittadinanza, sono esclusi dal diritto al lavoro, alla proprietà privata e all’assistenza sanitaria nazionale.
Mohammed ci racconta. È bello sentirlo parlare, gli occhi gli brillano sotto ai capelli ricci e scuri. Gli piace il suo lavoro.
Ci spiega che nel 2016 l’agenzia dell’Onu sta seguendo quattro strategie per riuscire a tutelare i diritti dei rifugiati che si manifestano in vari aspetti.
- Prima di tutto si tenta di garantire sicurezza (Access to safety and protection from Refoulment) a persone che scappano dalla guerra e dalla fame.
- In secondo luogo si sta trattando col governo per avere la possibilità di consegnare un documento (diverso dal permesso di soggiorno, eccessivamente costoso) che attesti il proprio stato di rifugiato, legalizzando la propria presenza in modo da non essere arrestati al primo check point.
- Tra le priorità c’è poi l’attuazione di una procedura semplificata per il rilascio dei certificati di nascita (Birth registration) per i siriani, che vengono affiancati nell’affrontare la burocrazia gestita dai mukhtar e che possono evitare il possesso di documenti costosi richiesti dalla procedura più diffusa. Questo per prevenire l’aumento del numero di apolidi (Prevention from statelessness), che oggi nel mondo è intorno ai 10 milioni.
- Vengono infine esaminati individualmente i casi più vulnerabili e con bisogni specifici (bambini, orfani, donne incinta, LGBTI) e supportati con un’assistenza mirata che riesce a coprire il 10/15% dei rifugiati.
Il canto di Mohammed risuona ancora nelle nostre orecchie prima di addormentarci. Le note curde si mescolano al ricordo della ninna nanna che mi cantava mia mamma da bambina. Penso a lei. Probabilmente sta già dormendo in questo momento. È lì a casa ad aspettare che torni.
Perché io una casa dove tornare ce l’ho.
http://www.meltingpot.org/Un-diario-dal-Libano.html#.V9G5tyiLTIU
http://www.amelespiegate.wordpress.com