di Francesca Radaelli
“Sono la moglie di un minatore boliviano”. Così esordisce Domitila Barrios de Chungara quando nel 1975 prende la parola a Città del Messico, nell’ambito della prima conferenza mondiale sulla condizione della donna, organizzata dall’Onu in occasione dell’Anno internazionale della donna.
In mezzo ai discorsi accademici delle femministe occidentali – in maggioranza alla conferenza – le sue parole risuonano ancora più vere e concrete. Domitila non è certo laureata, ma racconta la sua storia, che è poi quella del suo popolo, quella delle lotte dei lavoratori oppressi e delle loro famiglie in un Paese sudamericano tormentato da un susseguirsi di feroci dittature militari. Lotte per salari più alti per gli uomini, ma anche battaglie contro i rincari dello zucchero e del riso, per i rifornimenti alimentari agli spacci dei minatori. Problemi lontani anni luce dalle vite delle femministe ‘del nord’, eppure ben presenti nelle vite delle donne mogli e madri in quell’angolo di sud del mondo.
L’anno successivo esce il libro testimonianza “Si me permiten hablar”, scritto insieme alla ricercatrice brasiliana Moema Viezzer e questa storia viene tradotta in 15 lingue (in italiano col titolo “Chiedo la parola”).
La lotta dei minatori boliviani
Domitila è nata 1937 a Siglo XX, un villaggio di minatori della Bolivia, nei pressi di Llallagua, nel dipartimento di Potosì. Lì tutti o quasi lavorano nelle miniere di stagno, che hanno fatto la fortuna dei ricchi industriali sostenitori dei militari al potere. Figlia di minatore, non può che sposarsi con un minatore, insieme a cui ha ben 11 figli, soltanto 7 dei quali sopravvivono. Lei stessa per un periodo lavora in miniera.
Nel 1961 fonda il Sindacato delle casalinghe, associazione di donne che affiancano e sostengono le lotte degli uomini minatori, per condizioni di vita e di lavoro dignitose.
Il 24 giugno 1967, nella Bolivia percorsa dalla guerriglia, l’esercito della dittatura militare di René Barrientos – lo stesso che ordinò l’uccisione di Che Guevara – attacca le comunità di Catayi e Llallagua, tra cui anche il villaggio di Siglo XX, che protestano contro lo sfruttamento da parte delle grandi aziende minerarie. L’evento è ricordato dai boliviani come il massacro di San Juan: il bilancio è di venti morti e settanta feriti e Domitila, tra i leader della protesta, viene incarcerata e sottoposta a feroci torture, nonostante sia incinta.
Cinque donne contro una dittatura
Ma è sempre lei dieci anni dopo, insieme ad altre quattro mogli di minatori boliviani, a dare il via a uno sciopero della fame che riuscirà a porre fine a un’altra dittatura militare, quella del generale Banzer. Tutto comincia con cinque donne che scioperano dentro l’Arcivescovado di La Paz: il primo a seguirle è un sacerdote, ma poi nel giro di qualche giorno lo sciopero si diffonde in tutta la Bolivia. Strade, piazze e palazzi vengono occupati dal popolo boliviano, provocando così la caduta della dittatura militare e l’indizione di libere elezioni.
Morta nel 2012, Domitila è ancora ben presente nella memoria del suo popolo. All’inizio di “Si me permiten hablar” dice: “La storia che sto per raccontare non vorrei assolutamente che fosse interpretata come una vicenda personale. Perché penso che la mia vita sia legata a quella del mio popolo. Voglio parlare del mio popolo”.
Una donna del suo popolo
Moglie di un minatore boliviano, madre di sette figli, guerriera del suo popolo. Alle donne del ‘nord’ riunite a Città del Messico per parlare di femminismo Domitila doveva sembrare una specie di aliena: una donna che ‘appartiene’ a qualcun altro, che da donna lotta per sé, ma soprattutto per gli altri, per tutte le donne e gli uomini della sua comunità, per il loro destino comune.
Lo scrittore Eduardo Galeano, suo amico, racconta di averla incontrata esule a Stoccolma: “L’avevano cacciata dalla Bolivia e lei era partita con i suoi sette figli. Domitila era molto grata agli svedesi per la loro solidarietà, e ammirava la loro libertà; però li compativa, soli com’erano : bevevano soli, mangiavano soli, parlavano soli.
E lei consigliava loro: “Non siate sciocchi. Unitevi. Noi, giù in Bolivia ci uniamo. Fosse anche solo per litigare”.