di Virginia Villa
“Alle donne dico che non devono scoraggiarsi perché domani è un altro giorno e devono continuare a vivere. Se sanno chi ha ucciso i loro cari devono parlare. Ai giovani che devono lottare sin dall’inizio, contro amici e parenti”.
Michela Buscemi non appartiene ad una famiglia mafiosa, ma la mafia le ha causato molta sofferenza e ha macchiato indelebilmente la sua vita e quella dei suoi familiari.
Umili origini
L’infanzia e l’adolescenza di Michela Buscemi sono caratterizzate da una povertà assoluta. E’ la primogenita di dieci fratelli e il padre non ha un lavoro stabile, tanto che per un periodo si trasferì a Berlino. Riesce a frequentare la scuola elementare, nonostante la grave situazione economica della sua famiglia e le minacce dei genitori che la obbligano, anche con la violenza, a restare a casa per accudire i fratelli.
La forza d’animo di Michela Buscemi, unita al desiderio di riscatto sociale, la portano ad ottenere un attestato come operaia addetta a cucire a macchina. Suo padre, contrario al lavoro femminile, accetta che la figlia lavori solo per ottenere una casa popolare e gli assegni familiari, a lui negati perché disoccupato.
Salvatore e Rodolfo Buscemi
Ha il compito di cura dei fratelli che i genitori le hanno assegnato fin da giovanissima e sente di provare per loro un sentimento quasi materno. Quando due dei suoi fratelli vengono uccisi per mano mafiosa, Michela Buscemi prova un dolore immenso. Il primo ad essere ucciso è Salvatore Buscemi; la sua colpa è stata quella di vendere sigarette di contrabbando senza il permesso della mafia. Rodolfo Buscemi venne ucciso poco dopo perché aveva cominciato ad indagare nel suo quartiere su chi potesse aver ucciso il fratello.
Il maxiprocesso del 1986
Nel 1983 sui giornali si parla della collaborazione di giustizia di Vincenzo Sinagra, un mafioso che viene arrestato poco dopo la sparizione di Rodolfo Buscemi. La famiglia di Michela, e lei compresa, da sempre sospettavano che dietro la morte dei fratelli ci fosse la mano mafiosa, e le rivelazioni di Sinagra ne danno conferma. Michela Buscemi non esita un secondo a costituirsi parte civile in quello che sarà noto come il maxiprocesso iniziato nell’aula bunker di Palermo il 10 febbraio 1986.
Il ruolo delle associazioni
Inizialmente anche la madre di Michela Buscemi decide di dare appoggio alla figlia, ma tornerà presto sui suoi passi, rinnegando la figlia anche attraverso i giornali sui quali scrisse: “Io non ho mai pensato di costituirmi parte civile. Soltanto mia figlia Michela si è costituita parte civile. Né io né gli altri c’entriamo”. La rottura con la famiglia è inevitabile, ma continua ad avere il sostegno del marito e dei figli, oltre che quello di due associazioni molto importanti: il Centro Impastato di Palermo e l’Associazione donne siciliane per la lotta alla mafia. Queste due associazioni non si sono limitate a dare un aiuto economico a Michela, ma la accompagnano anche in aula durante le udienze.
Le minacce
Quella che appare come una situazione perfetta si rivela presto un incubo. Il 7 marzo alle 23, Michela Buscemi riceve una minaccia a telefono: “Si ritiri da parte civile che è meglio per lei. Se non lo farà, prima di Pasqua avrà un morto in famiglia. Non creda che suo figlio sia salvo solo perché è partito. Si ritiri!”
Michela ha ricevuto molte minacce da parte della mafia dal momento in cui ha deciso di costituirsi parte civile, ma questa volta quelle parole la spaventano. Decide di parlarne con il marito e con il suo avvocato e tutti le consigliano di ritirarsi per evitare che altri innocenti vengono uccisi.
Non vuole ritirarsi, ma teme per la vita di sua marito e dei suoi figli. Torna in aula un’ultima volta e va direttamente davanti alle gabbie dove erano rinchiusi gli imputati e urla a gran voce che si sarebbe ritirata solo per amore dei suoi figli.
La sua testimonianza
Michela Buscemi non si è rassegnata, ha trovato il modo di continuare la sua lotta alla mafia. Poco dopo il suo ritiro a parte civile ha assunto il ruolo direttivo dell’Associazione donne contro la mafia e ha riportato la sua storia in un libro, “Nonostante la paura”, con il quale ha organizzato numerosi incontri nelle scuole e nelle piazze di tutta Italia per sensibilizzare i più giovani e denunciare la criminalità mafiosa che infesta il nostro paese.