di Laurenzo Ticca
Chi abbia visto uno reportage televisivo o una mostra fotografica sulla storia dei manicomi porta con sé l’angoscia per quelle immagini, capaci di trafiggere il cuore e suscitare pena e indignazione. Corpi abbandonati, uomini e donne ridotti a cose. Malati coperti di stracci, sguardi assenti, volti inespressivi, esseri umani impauriti e ridotti come estremo atto di difesa a raccogliersi in posizione fetale. E ancora: le camicie di forza, le lobotomie, i letti di contenzione. Triste corollario di una medicina che sanciva, con la reclusione in quel teatro degli orrori, la propria impotenza di fronte alla follia.
Alda Merini, la grande poetessa italiana che conobbe la sofferenza provocata dall’internamento in un ospedale psichiatrico descrive così le fasi che precedevano l’elettroshock :“Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna orinava per terra.”
In Italia ci sarebbe voluto Franco Basaglia per sollevare il velo su questa vergogna.
Come lui, prima di lui, in anni remoti la straziante condizione nei manicomi fu denunciata da una donna, una giornalista. Si chiamava Elisabeth Jane Cochran. Firmava i suoi articoli con lo pseudonimo Nellie Bly. Statunitense (1864-1922) decise di vivere la sua professione, come si dice, consumando la suola delle scarpe, andando a vedere di persona.
L’esito della sua tenacia furono una serie di inchieste capaci di gettare luce sulla condizione di vita degli ultimi ( i ceti poveri, i bambini, le donne, i carcerati).
Un giorno qualcuno le parlò delle condizioni di vita nel manicomio femminile che sorgeva sull’isola di Blackwell. Ne parlò con il direttore del suo giornale e lo convinse a lasciare che la sua giovane cronista si fingesse pazza per essere ricoverata. Era l’unico modo, in quel lontano 1887, per verificare le notizie avute. Trascorse dieci giorni tra quelle mura. Provò sulla propria pelle il trattamento riservato ai folli. Fu “liberata” dall’avvocato del giornale che rivelò lo stratagemma adottato di Nellie per varcare l’ingresso del manicomio.
L’articolo scritto per il New York World fece scalpore , tanto da provocare l’apertura di una inchiesta giudiziaria.
Il racconto è intessuto di episodi e comportamenti non dissimili da quelli che hanno caratterizzato per decenni i manicomi. La sporcizia, la mancanza di riscaldamento nei padiglioni dei malati, la disciplina imposta con la violenza, le angherie subite, le percosse ricevute. Nellie racconta delle pazienti, 1600 donne, abbandonate in stanze gelide, costrette a ingurgitare cibo nauseabondo e forzate a fare il bagno immergendosi in vasche di acqua fredda e sporca.
“ Solo la tortura può portare alla malattia mentale più velocemente di un tale trattamento” scriverà Nellie nel suo diario.
Inconsapevolmente Nellie Bly , con il suo affresco da un luogo infernale, offriva le istantanee di una sofferenza indicibile ad una psichiatria che un giorno, molti decenni dopo, avrebbe ragionato sulle condizioni dei pazienti psichiatrici ma soprattutto sul rapporto tra i medici e i malati. La costrizione, i regolamenti, le abitudini , la violenza e l’indifferenza di fronte alla sofferenza dei folli nascondevano una pratica di potere oscena che nel sapere “scientifico” cercava un alibi.
Con Nellie Bly nasceva il giornalismo sotto copertura e un modo di esercitare la professione che avrebbe fatto scuola.