di Francesca Radaelli
In una notte di pioggia sei uomini qualunque, sei sconosciuti, trovano rifugio dentro a una casa isolata. Per loro ci sono sei tute asciutte e pulite, ma solo a tre di queste, quelle di colore beige, sono abbinate le chiavi di tre stanze. Inizia così Effetto Lucifero, lo spettacolo della compagnia Oyes in scena sul palcoscenico del teatro Binario 7 di Monza da venerdì 8 a domenica 11 febbraio, per la regia di Dario Merlini.
Vincitore del Premio ‘Giovani realtà del teatro’ dell’Accademia Nico Pepe di Udine, lo spettacolo è ispirato all’’esperimento’ attuato negli anni ’70 a Stanford dal professor Philip Zimbardo. Il quale divise un gruppo di studenti, consapevoli di entrare in una sorta di gioco delle parti, in ‘guardie’ e ‘carcerati’ assegnando loro un ruolo in modo totalmente arbitrario e casuale.
L’obiettivo era capire quanto la pressione esercitata da un’Autorità esterna su di un gruppo sociale potesse condizionare i comportamenti dei singoli individui. Gli effetti furono inquietanti, tanto che l’esperimento dovette essere sospeso dopo solo cinque giorni: da guardie e carcerati per finzione, gli studenti si erano trasformati in carnefici e vittime per davvero.
Altrettanto angoscianti sono i risvolti della situazione che viene a crearsi sul palcoscenico. I Padroni di casa sono un’Autorità decisamente sfuggente, non compaiono mai in scena e comunicano solo attraverso qualche raro biglietto che viene fatto pervenire agli occupanti della casa abbastanza misteriosamente.
Eppure l’assegnazione di compiti e ruoli non viene messa in discussione, o meglio ogni tentativo di farlo proviene solo dalla parte più debole, dai tre che, indossando una tuta blu e non avendo ricevuto le chiavi, sono destinati ad essere ‘prigionieri’. Le guardie, invece, sembrano preoccupate solamente di compiacere l’Autorità che le ha messe nella posizione in cui si trovano, di difendere il territorio della casa, che è stato dato loro in custodia, di agire in modo che i Padroni siano contenti.
Senza alcuno scrupolo nel ricorrere alla violenza. Per mantenere l’ordine non esitano a rinchiudere, legare, picchiare e umiliare quei ‘prigionieri’ che prima di indossare quella tuta altro non erano che uomini come loro, con cui ridere e scherzare.
Il modo in cui la situazione si evolve, certe scene e certe circostanze che prendono forma sul palco non possono non richiamare alla mente episodi tra i più tragici della storia recente, dai campi di concentramento nazisti, con i loro kapò e la banalità del male attuato da persone ‘perbene’, fino ai fatti di Guantanamo. A spettacolo terminato, resta il dubbio, la domanda incredula e angosciata: davvero basta dare una tuta beige e una chiave a una persona ‘normale’ per trasformarla in un carnefice senza scrupoli?