di Francesca Radaelli
Suo padre era un ferroviere, e così un giorno lui salì su un treno e, utilizzando i biglietti omaggio cui avevano diritto i familiari dei dipendenti delle ferrovie, si lasciò la Sicilia alle spalle e arrivò fino in Friuli Venezia Giulia. La sua prima fuga Elio Vittorini la realizzò all’età di 16 anni. Fu allora che il celebre scrittore nato a Siracusa il 23 luglio 1908, si allontanò dalla sua terra di nascita. Una terra mai completamente abbandonata, e in cui Vittorini tornerà, nei panni del protagonista Silvestro, in una delle sue opere più celebri, intitolata proprio Conversazione in Sicilia.
La seconda fuga fu una fuga romantica, quella per sposare la donna di cui si era innamorato: Rosa Quasimodo, figlia del celebre poeta Salvatore (anch’egli siciliano). In seguito, l’amore per un’altra donna, Ginetta Varisco, lo condusse sino in Brianza: lo scrittore è sepolto ora nel cimitero di Concorezzo.
E poi ci fu la fuga dal fascismo, di cui lui stesso aveva abbracciato in origine alcune posizioni antiborghesi: una fuga che aprì un capitolo decisivo nella vita dello scrittore: l’esperienza della Resistenza a fianco dei partigiani in montagna.
E la dimensione della fuga non manca nemmeno nel Vittorini scrittore. La sua è una fuga dalla tradizione, una fuga che è un’apertura al mondo, a partire da quello della narrativa nord americana – Faulkner, Hemingaway, e tanti altri – che attraverso le sue traduzioni riuscì a portare da questa parte dell’Oceano.
Quella dei suoi romanzi è una fuga dalla realtà verso un mondo onirico e simbolico, come l’atmosfera di Conversazione in Sicilia, ma anche alla ricerca di una nuova dimensione morale, innescata dalla storia ma che riguarda anche la sfera privata e individuale di ogni singolo uomo.
Uomini e no è il titolo del romanzo che forse più rappresenta questa ricerca: la guerra divide fascisti e partigiani, italiani e tedeschi, mentre il protagonista aspira alla libertà, anche quella di vivere il proprio amore impossibile con la donna che ama e che è sposata a un altro. Alla fine, sconfitto su entrambi i fronti, getta la spugna.
Ma pensando ad alcune delle pagine più forti e crude del romanzo, di fronte alle macerie e ai morti di una guerra descritte con estrema crudezza, a quei due cadaveri – il bambino e il vecchio – in cui il protagonista si imbatte in Largo Augusto, nel centro della città di Milano – rimane sospesa, inevitabilmente, una domanda. Una domanda ineludibile e necessaria, tanto al tempo della lotta partigiana quanto nel tempo attuale, poercorso da guerre differenti e costellato da morti altrettanto terribili.
Il punto interrogativo che nel titolo del romanzo non c’è sembra porre una questione ancora non risolta, in tempi in cui le immagini di cadaveri continuano a essere all’ordine del giorno. Che cosa ci rende uomini? E che cosa no?