di Alfredo Somoza
Sono tempi bui per la democrazia nel mondo. All’indomani della caduta del Muro di Berlino, la democrazia pareva il destino ineluttabile dell’umanità, insieme all’economia globalizzata di mercato: ma quell’illusione viene smentita ogni giorno dai fatti. Sarà perché la globalizzazione non era in sé tanto democratica, e ha finito con il creare una schiera di vincitori e di perdenti senza possibilità d’appello. Sarà anche perché, per entrare nel club dei vincitori, non è stato mai richiesto un passe-partout democratico. Anzi, non a caso, i primi e fondamentali passi per dare il via al processo globale furono mossi verso la Cina, diventata oggi una potenza mondiale pur avendo mantenuto gli stessi livelli di autoritarismo di un tempo.
E così è accaduto che, mentre nei Paesi democratici le riforme imprescindibili per agganciarsi al carro della globalizzazione si sono tradotte in un calo notevole dei diritti individuali, nei Paesi guidati da dittature la crescita economica ha consolidato le strutture di potere senza metterle in discussione.
Appurato che la crescita economica non coincide necessariamente con l’aumento delle libertà individuali e collettive, bisogna aggiungere che oggi la democrazia è sotto tiro anche in aree dove la povertà regna indisturbata: in particolare in quelle aree dove, senza risparmiare mezzi militari, sono state tentate diverse operazioni fallimentari di “esportazione” della democrazia, come se questa forma di governo fosse anch’essa una merce, a disposizione di tutti sul mercato. L’amaro risveglio dalle cosiddette “primavere arabe” ha visto il ritorno dei generali in Egitto, la fine della Libia come Stato unitario, la lotta all’ultimo sangue per rovesciare la democrazia tunisina.
Le forze antagoniste o terroristiche che operano in questi Paesi sono state allevate e foraggiate da diversi regimi totalitari del Golfo, che però nel gioco della globalizzazione siedono al tavolo delle potenze credibili e autorevoli grazie al loro portafoglio gonfio di petrodollari. Non si è mai vista, per esempio, un’operazione miliardaria di marketing turistico come quella che da alcuni anni decanta i Paesi del Golfo come nuovi paradisi terrestri, quando in realtà si tratta di Stati che si reggono sullo sfruttamento disumano del lavoro immigrato, sull’intolleranza culturale e di genere, su amicizie pericolose sulla scacchiera internazionale. E anche di sicuri paradisi fiscali. Insomma, quando si decantano i fasti di Dubai o di Doha si cancella l’altra faccia, quella sporca, perché la democrazia, se si è ricchi, diventa un optional.
Per l’ISIS e simili non ci sono invece dubbi. Nel ristretto orizzonte culturale di questi movimenti non c’è spazio per un sistema di governo che permetta di scegliere, dissentire o contestare il capo. La recente scena dei deputati tunisini rinchiusi in Parlamento a cantare il loro inno nazionale ci riporta a pagine epiche della resistenza all’autoritarismo e chiarisce definitivamente quanto la lotta in corso in Medio Oriente nulla abbia a che fare con la religione, ma piuttosto con la democrazia. Una guerra che riduce gli spazi di libertà anche in Occidente, dove le leggi antiterroristiche varate d’urgenza stanno consegnando agli Stati poteri d’intromissione, controllo e polizia nei confronti dei cittadini inimmaginabili fino a qualche anno fa.
Winston Churchill riteneva che la democrazia fosse la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre: il suo celebre aforisma rischia però di essere definitivamente consegnato alla storia, se l’internazionale del terrore riuscirà a imporre anche a noi la sua visione. Perché, se la risposta delle democrazie mature sarà quella di misurarsi sul campo (minato) preferito dal nemico, la guerra per la democrazia a livello mondiale sarà definitivamente persa.