Fase 1, 2, 3 … fuori fase – cap. 1

di Marco Riboldi

Mentre transitiamo tra una fase e l’altra del pre-in-post virus, direi che si potrebbe cominciare a segnalare anche qualche  situazione che appare “fuori fase” e che induce a riflessioni condotte magari con tono un po’ lieve, ma non per questo da sottovalutare.

Cominciamo da un argomento comunicativo.

Se esiste qualcosa che si è diffuso più velocemente del virus, ebbene questa è la marea di parole ed espressioni inglesi o presunte tali che ci accompagnano quotidianamente.

Appena la pandemia ha minacciato di diventare tale, nasce il covid hospital, in modo che chi, nonostante il lock down, avesse contratto il virus, magari per qualche sciagurata droplet dispersa nell’aria, potesse essere adeguatamente assistito.

Serviva un buon screening, in modo da selezionare adeguatamente i pazienti secondo gravità (ahimè, nonostante l’inglese, non è andata così, come sappiamo).

Ovviamente tutto nasceva da qualche disastroso wet market cinese, dove il virus, balzando dagli animali all’uomo, aveva compiuto lo spillover.

 Che fare, dunque?

Oltre al citato lock down, appariva indispensabile munire i nostri ospedali di più numerose apparecchiature di aiuto alla respirazione, magari ricorrendo alle maschere da snorkeling opportunamente  modificate.

Adesso che siamo alla fase 2 o 3, passiamo allo stare all’erta, magari utilizzando la app di tracking.

Certo, abbiamo grossi guai in economia.

Nonostante la pronta reazione delle aziende che sono passate allo smart working (termine a dire il vero non usato nei paesi anglofoni, dove si usa dire home working o remote working), nonostante l’uso di conference call,  i rischi di default per la nostra economia sono piuttosto acuti. Fortunatamente pare che si possa contare sul’aiuto comunitario, sotto forma di bond, recovery fund ecc.

Ecco, questa è la tendenza, pardon, il trend che si è consolidato nel tempo.

Ora, capisco bene che non è esattamente il problema più grosso del momento. Capisco che l’uso di parole come quelle citate rende agile (smart) il discorso, soprattutto giornalistico. Capisco che bandire del tutto le parole straniere come voleva il Duce non è sintomo di grande elasticità mentale (qualcuno propose di chiamare “coda di gallo” o “polibibita” il cocktail). Capisco che sentire parlare alcuni nostri ministri in quello che loro ritengono essere italiano induce ad accettare che venga strapazzata un’altra lingua e non la nostra… capisco tutto.

Ma uno sforzetto per usare le parole di cui disponiamo nel nostro abituale vocabolario è proprio così estenuante? 

P.S. Ma adesso, mentre scema la paura (e non è detto che sia un bene) possiamo tornare alla movida? Per dire: non di solo inglese vive la fantalingua.

 

image_pdfVersione stampabile