Federico Garcìa Lorca e il fascino degli emarginati

Lorca

di Francesca Radaelli

“Credo che l’essere di Granada mi porti alla comprensione simpatica dei perseguitati. Del negro, del gitano, dell’ebreo… del moro che tutti portiamo dentro”.

Federico Garcìa Lorca nasce il 5 giugno 1898 a Fuentevaqueros, nella provincia di Granada, nel mezzo dell’Andalusia spagnola, da una famiglia benestante di proprietari terrieri. Giustiziato barbaramente durante la rivoluzione franchista, è diventato un simbolo di quell’epoca terribile. Oggi è considerato il maggiore poeta spagnolo del XX secolo.

Esponente della mitica “Generazione del 27”, nella Madrid di Salvador Dalì e Luis Buñuel, ha dato voce, all’interno della sua produzione poetica, al fascino delle tradizioni e dei simboli più popolari della sua Spagna, ma non solo. Le poesie e le ballate raccolte nel ‘Poema del cante jondo’ o nel Romancero gitano’ sono impregnate di terra di Andalusia, dei miti e delle figure simboliche delle campagne in cui il poeta è cresciuto.

Garcìa Lorca (il secondo a destra) con gli amici (da sinistra) Maria Antonieta Hagenar, Chas De Cruz e Pablo Neruda
Garcìa Lorca (il secondo a destra) con gli amici (da sinistra) Maria Antonieta Hagenar, Chas De Cruz e Pablo Neruda

Come quella del gitano, un personaggio che vive ai bordi, ‘vinto’ ed emarginato, simbolo di una condizione che il poeta stesso  porta dentro di sé. Forse per via della propria omosessualità, forse per il fatto di sentirsi ‘diverso’ in quanto artista. Anche quando si trasferisce a New York (negli anni 1929-1930 soggiorna alla Columbia University), Lorca si identifica nei ‘gitani d’America’, quei neri di Harlem spesso protagonisti dei componimenti di Poeta en Nueva York’, la raccolta di poesie di quel periodo pubblicata postuma. Nei suoi versi c’è anche altro, c’è il gusto per la brevità e la metafora, ci sono sicuramente anche gli influssi esercitati dagli ‘amici’ delle avanguardie surrealiste, ma ciò che a Lorca forse interessa di più è proprio l’empatia con i deboli e gli emarginati.

Non si cura tanto della pubblicazione editoriale delle sue opere, che spesso vengono stampate solo grazie all’intervento degli amici, anni dopo l’effettiva composizione. Ama invece instaurare un rapporto diretto con il suo pubblico, organizzando letture ad alta voce dei propri versi, forse anche per ricollegarsi alla poesia popolare tramandata oralmente. È con questo spirito che, dal 1932 al 1935 gira nei piccoli paesi della Spagna con La Barraca, una compagnia di attori dilettanti con cui rappresenta i capolavori del teatro classico spagnolo.

Il manifesto della Barraca
Il manifesto della Barraca

Ma le sue peregrinazioni di poeta-gitano sono costrette a fermarsi, proprio nella sua Granada. Qui, nel 1936, in piena guerra civile spagnola, è sorpreso da una squadra della Falange cittadina e arrestato per essersi dichiarato a favore della Repubblica, contro Francisco Franco. Nonostante gli appelli di importanti intellettuali suoi amici, dal musicista spagnolo Manuel De Falla al poeta cileno Pablo Neruda, viene fucilato il 19 agosto. Il suo corpo non è mai stato ritrovato.

Rimane, come congedo, una delle sue tante, piccole poesie che toccano il tema della morte. L’addio di un poeta gentile al mondo, al suo pubblico e, forse, a tutti noi.

Congedo

Se muoio,

lasciate il balcone aperto.

Il bimbo mangia arance.

(Dal mio balcone lo vedo.)

Falcia il grano il mietitore.

(Dal mio balcone lo sento.)

Se muoio,

lasciate il balcone aperto!

Francesca Radaelli

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