“Fuga senza fine. Una storia vera”, di Joseph Roth, Adelphi

di Carlo Rolle

Buongiorno, amici lettori, ecco un altro bellissimo libro di Joseph Roth: “Fuga senza fine”.  Questo fu il suo secondo libro pubblicato nella collana “Biblioteca”: uscì nel 1976 e fu seguito da moltissime ristampe. Il suo successo era stato preceduto da “La Cripta dei Cappuccini”, del quale ho parlato in un altro articolo.

Mentre “La Cripta dei Cappuccini” uscì per la prima volta nel 1939, l’anno della morte di Roth, “Fuga senza fine”, pubblicato nel 1927, appartiene alla prima fase della sua attività letteraria e ne rappresenta forse il frutto più emblematico e potente. Si tratta di un libro breve, solo 150 pagine, ma che lascia nel lettore un segno profondo.

Prigioniero di guerra

La trama consiste nel racconto di dieci anni della vita del tenente dell’esercito austro-ungarico Franz Tunda, il quale nell’agosto del ’16 cade prigioniero dei Russi e viene inviato in Siberia. Il racconto ci viene dalle parole di un uomo, lo stesso Roth, che afferma di aver corrisposto con lui e di averlo infine incontrato a Parigi nell’agosto del 1926.

Durante questi dieci anni, Franz ha vissuto molte peripezie in un mondo sconvolto da guerre, rivoluzioni e avvisaglie di ancor peggiori avvenimenti.

Dopo esser giunto in Siberia, Franz riesce ad evadere e trova ospitalità in una casupola isolata, dove vive un solitario e taciturno polacco, Baranowicz, che campa del commercio di pellicce, e accetta di far passare Tunda per il proprio fratello minore. Solo nel 1919 Franz apprende da lui che la guerra è finita e si decide a partire: in Austria lo aspetta Irene, la fidanzata della quale non ha più notizie.

Il turbine della Rivoluzione Russa

In Russia però è scoppiata la Rivoluzione, seguita dalla sanguinosa guerra civile. Di tutto ciò Franz non sa quasi nulla, né gli importa; riesce ad attraversare il paese ma, proprio quando è ormai giunto in Ucraina, nel territorio occupato dai controrivoluzionari Bianchi, questi lo arrestano, sospettando che sia una spia.

Viene però liberato dalla Guardia Rossa: tra i suoi liberatori vi è una giovane donna, Natascia, della quale egli si innamora. Resta con lei e nell’Armata Rossa, trascinato dagli eventi, combattente per la Rivoluzione, che pareva dovesse dilagare su tutto il pianeta. Un giorno arriva nel suo reparto un commissario politico, che affascina Natascia con i suoi discorsi. Quando questi muore, ne prende il posto, scrivendo discorsi politici e proclami.

Combatte in Ucraina e sul Volga, nel Caucaso e sull’Ural, sempre usando il nome di Franz Baranowicz. Dopo la vittoria dei Rossi vive a Mosca con Natascia, che si impegna in una febbrile attività organizzativa. Il fervore ideologico di Natascia e la passività di Franz finiscono per dividerli. I due si allontanano, come trascinati da opposte correnti.

Vita nel Caucaso

Franz trova un impiego in un istituto, che si occupa dello sviluppo culturale di una minoranza del Caucaso, dove egli si reca: poiché il modo migliore per trasmettere contenuti a questa arretrata popolazione è il cinema, Franz diviene direttore di un cinema locale. Conosce una ragazza del posto Alja, bella e silenziosa, priva di ogni fervore ideologico e di velleità intellettuali: l’opposto di Natascia. Franz se ne innamora.

Nel porto di Baku qualche nave gli porta l’eco lontana del mondo cosmopolita che aveva conosciuto a Vienna. Un giorno da un piroscafo sbarcano tre parigini, in viaggio attraverso l’Unione Sovietica: un avvocato, sua moglie e il loro segretario. Franz si innamora della signora G. e passa una notte con lei. Poi lei riparte per Parigi, lasciando un suo biglietto da visita.

La nostalgia per il confortevole mondo dell’Occidente si fa strada. Al consolato austriaco di Mosca Franz si presenta con i suoi documenti austriaci e spiega d’esser stato fino ad allora (siamo ormai nel ’22) prigioniero in Siberia. Egli è ancora cittadino austriaco e il suo linguaggio ineccepibile corrobora il suo racconto: riceve un passaporto austriaco e un biglietto per Vienna. Parte senza poter rivedere la moglie, rimasta nel Caucaso.

Ritorno in Occidente

Dopo aver vissuto un po’ a Vienna, disoccupato, Franz contatta per lettera il suo vecchio amico Roth, che nel libro è appunto il narratore della storia. Questi consiglia Franz di mettersi in contatto col fratello, del quale Franz non sapeva più nulla: Georg Tunda è direttore d’orchestra in una città della Renania. Franz gli scrive e poi parte per la Germania.

Qui il fratello e Klara, la moglie di lui, lo accolgono. Vivono bene in una città sul Reno, in una società descritta con pochi tratteggi di sferzante sarcasmo. Ad una festa organizzata per il suo ritorno, Franz incontra alcuni esponenti della prospera comunità locale.

Tra loro vi è un industriale, che appare dapprima un uomo avido e limitato, ma poi fa a Franz alcune acute considerazioni: ognuno deve recitare una parte, la società costringe ciascuno a fare quello che da lui, per un motivo o per l’altro, ci si aspetta; nessuno può trasgredire impunemente a questa legge, e anche l’industriale deve conformarsi ad essa. Ed è così in tutte le città del mondo: non si scappa.

Senza radici

Franz Tunda è per contro – ormai il lettore lo ha capito – un uomo che le turbinose vicende del suo tempo hanno strappato dalle proprie radici, da un percorso preordinato di vita. Franz non ha la determinazione per ricercare, a dispetto di esse, una direzione da dare alla propria vita, perché non è ossessionato dalla paura della povertà, né dall’ambizione di primeggiare.

È come se un vento lo trascinasse di qua e di là: è il turbine della storia, che infuria particolarmente in certe epoche e luoghi. Esso non gli ha consentito di consolidare una propria vocazione, di intraprendere un percorso negli anni cruciali in cui ogni giovane uomo trova la propria strada.

E Franz ha seguito questo vento impetuoso, adattandosi ad esso, ma, così facendo, egli pian piano è divenuto un estraneo al proprio antico ambiente, un deraciné. Paradossalmente proprio la sua indifferenza, o forse la sua superiorità, nei confronti delle ipocrisie borghesi e dei fervori ideologici, finirà per renderlo un reietto.

A Parigi

Franz viene a sapere che la sua antica fidanzata, Irene, che aveva atteso per anni notizie di lui, si troverebbe a Berlino. Allora vi si reca e riesce a pubblicare le memorie delle proprie esperienze in Russia, alle quali ha aggiunto molte vicende immaginarie, perché non è uomo che possa trovare nella scrittura propria la verità e la propria missione. Quando apprende che Irene è ormai partita per Parigi, città che lo attrae perché vi abita anche la signora G., incontrata a Baku, parte nuovamente.

Giunto a Parigi, Franz prende alloggio in un alberghetto e scrive una lettera alla signora G. Mentre attende per giorni una risposta, Franz vagabonda per le strade della città e ne osserva la folla. Anche qui egli è un estraneo; il suo sguardo si posa sugli uomini e sulle cose con la lucidità e la distanza che solo la non appartenenza può conferire.

Anche qui, come nelle situazioni precedenti le descrizioni sono concise, lucide, sferzanti. Le frasi di Roth sono spesso memorabili e definitive come aforismi: a volte mi sorprendevo a ripeterle mentalmente, cercando di capire se ciò che avevo letto si sarebbe potuto dir meglio; la risposta che mi davo era invariabilmente negativa.

Franz consuma i suoi giorni nell’attesa di una lettera o di una visita della signora G., mentre di Irene non sa nulla, non può rintracciarla. Quest’attesa gli impedisce di cercare un lavoro, di dirigere le proprie forze a costruirsi un futuro, una sicurezza economica. Intanto i suoi mezzi si assottigliano, i suoi pasti si diradano. Alla fine incontrerà entrambi i suoi due fantasmi femminili, ma le cose non andranno come lui sperava.

Naufragio

Pochi scrittori, amici lettori furono grandi quanto Joseph Roth nel descrivere il lento scivolare di un uomo nella povertà. Non si può dire che questo avvenga per colpa dei suoi personaggi, o almeno non sempre. Per imboccare questa china essi non commettono necessariamente gesti sconsiderati, né hanno la sventura di incontrare mostri in sembianze umane, come se ne trovano nei romanzi di Dostoevskij: i vari Stavroghin, Svidrigajlov Smerdjakov.

Non c’è bisogno di grandi malvagi, sembra dirci Roth; bastano la caducità intrinseca di tutti i legami umani, la forza disgregatrice del tempo, la leggerezza degli uomini e la fragilità delle loro imprese per far fallire le nostre aspirazioni e portarci alla caduta.

Ed è proprio per questa disgregazione graduale e pervasiva, che si fa sempre più incalzante e irrimediabile, che certe pagine di Roth, così realistiche e pronte a cogliere minuti dettagli, assumono una dimensione tragica e acquistano un respiro epico e dolente.

È la vita stessa che a volte ci spoglia di tutto, sembra dirci Roth: ci toglie l’amore, l’agio, la sicurezza, la dignità. Basta che certe circostanze si verifichino, basta – per esempio – che il turbine della Storia investa le nostre vite.

“Una storia vera”

Notate, amici lettori, il sottotitolo del libro: “Una storia vera”. Sembra un’aggiunta assurda per un romanzo con personaggi immaginari. Ma quando arriverete ai capitoli finali, i più belli e insieme i più atroci di “Fuga senza fine”, capirete il senso di queste parole, perché la crudele precisione, con la quale Roth descrive l’insinuarsi della povertà nella vita di Franz, e il mutamento nell’atteggiamento di coloro che lui frequenta, vi proverà che Roth parla di esperienze dolorose della propria complicata vita.

Non c’è ancora in questo romanzo il mito asburgico di uno stato immobile, ma pacifico e tollerante, che si troverà nei successivi romanzi di Roth, tra cui “La Cripta dei Cappuccini”.

Quel vagheggiamento di un mondo scomparso, soffuso dalla luce del mito, nascerà in seguito nei libri di Roth. Ma già qui, in “Fuga senza fine”, c’è lo sconcerto per un nuovo tempo feroce che incalza, un tempo che ha travolto il vecchio mondo e che promette nuove e peggiori catastrofi: in questo libro, uscito cinque anni prima dell’avvento del nazismo, c’è già la certezza di una nuova, terrificante guerra.

 

"Fuga senza fine", nella Biblioteca Adelphi
In copertina: Gino Severini, “La danseuse obsèdante” (particolare), 1911

 

Per chi fosse eventualmente interessato, ecco i link alle precedenti recensioni:

 

– 1) “Storie e leggende napoletane”, di Benedetto Croce; 

– 2) “Il monaco nero in grigio dentro Varennes”, di Georges Dumézil; 

– 3) “I Vangeli Gnostici”, a cura di Luigi Moraldi; 

– 4) “La Cripta dei Cappuccini”, di Joseph Roth; 

– 5) “Fuga da Bisanzio”, di Iosif Brodskij;  

– 6) “Andrea” o “I ricongiunti”, di Hugo von Hofmannsthal; 

– 7) “Lo stampo”, di Thomas Edward Lawrence; 

– 8) “Un altro tempo”, di Wystan Hugh Auden.

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