di Giacomo Orlandini
Nella cultura ebraica, il termine “giusto” (in ebraico: Zaddiq) è usato per indicare “i non-ebrei che hanno rispetto per Dio”. Dopo la seconda guerra mondiale, l’onorificenza di “Giusti tra le nazioni” è stata conferita ai non-ebrei che hanno agito in modo eroico, a rischio della propria vita e senza interesse personale, per salvare anche un solo ebreo dal genocidio nazista.
Secondo il Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, ogni generazione conosce trentasei “Giusti”, ossia trentasei uomini che eserciterebbero il loro potere quando su Israele incombe una minaccia, per poi scomparire dopo averla eliminata. Uno di questi giusti fu certamente Géza Kertész, eroe silenzioso di una guerra spietata: lo Schindler del calcio che contribuì a salvare decine di ebrei e partigiani dai lager nazisti.
Géza Kertész era un ragazzo alto, simpatico, con gli occhi piccoli e ammiccanti che parlava in modo pacato e suadente. Era sempre riconoscibile per la sua serietà e posatezza. Nacque il 21 novembre 1894 a Budapest, in un’Ungheria ancora politicamente unita all’Austria sotto il governo della monarchia asburgica. All’epoca per i ragazzini non c’erano molte occasioni di svago. Lui cominciò a frequentare il campo da calcio di una polisportiva della sua città, il “Budapesti Torna Club”, in assoluto una delle primissime società sportive dell’impero austro-ungarico. Grazie al suo fisico, ma anche alla sua intelligenza e versatilità, Géza divenne un giocatore completo, capace di giocare in varie zone del campo, anche se preferiva la mediana. Aveva un unico limite: era troppo lento. Questo, all’epoca, veniva considerato dagli allenatori come un difetto da poco, che però gli valse il soprannome di “bradipo”. Con la maglia rossa del Budapesti TC giocò per otto anni, dal 1911 al 1919 per poi spostarsi al Ferencvàros, altra storica società di Budapest, dove rimase quattro anni e dove concluse la carriera il 1° maggio 1923.
Proprio al Ferencvàros, Gèza fece amicizia con Istvàn Tòth, un collega calciatore che in futuro avrebbe intrapreso, come lui, la carriera di allenatore in Italia. Gèza Kertész, infatti, decise a 31 anni di appendere le scarpette al chiodo ma non di abbandonare il calcio. Cominciò a studiare le tattiche, a osservare gli allenamenti e a creare contatti con l’Italia, un paese che gli piaceva molto e che aveva un movimento calcistico più sviluppato, capace di garantire maggiore benessere a sua moglie Rosa e ai suoi figli.
In quegli anni, il calcio nel mondo stava attraversando un periodo di crisi perché le squadre che attaccavano finivano troppo spesso in fuorigioco. Per far fronte a questo problema, nel 1925, l’anno in cui Géza Kertész arrivò in Italia, l’International Board modificò la regola riducendo da tre a due i difensori, compreso il portiere, che dovevano essere tra la palla e la porta affinché l’attaccante non fosse in fuorigioco. Al contempo però le società italiane ricercarono anche all’estero allenatori in grado di aumentare lo spettacolo.
Erano gli anni del ventennio fascista, e il Duce ben presto si avvide del consenso popolare che avrebbe potuto ottenere rendendo lo sport più esaltante e facendone uno strumento di propaganda. Il mister ungherese si qualificò per un approccio più spettacolare con meno lanci lunghi a scavalcare il centrocampo, più fraseggio e più possesso palla, attribuendo quindi un’importanza fondamentale alla capacità tecnica dei calciatori.
In Italia Géza si attenne al suo ruolo di allenatore straniero, lavorò anche per squadre sostenute dal regime, ma rimase distante dalla politica. Egli era solito affittare una grande villa dove i suoi giocatori alloggiavano durante la settimana, allenandosi, conoscendosi meglio e aumentando lo spirito di squadra. In pratica introdusse nel calcio italiano una novità assoluta: il ritiro. Dotato di una eccezionale intelligenza tattica, l’ungherese conquistò numerose promozioni e, soprattutto, l’affetto perenne delle città in cui predicò calcio. Salernitana, Catanzarese, Roma e Lazio furono solo alcune tappe della sua carriera, culminata a Catania, dove conquistò la prima storica promozione in serie B.
Le tattiche calcistiche erano però in quel momento uno degli ultimi problemi del mondo, messo a ferro e fuoco dal secondo conflitto mondiale. Nel 1943 l’Italia che Mussolini aveva portato in guerra a fianco di Hitler era stremata e prostrata, le città bombardate, le vie di comunicazione interrotte, la fame era l’elemento che accomunava gli italiani del nord a quelli del sud. Nel corso dell’anno, gli alleati sarebbero sbarcati in Sicilia e il fascismo sarebbe caduto. In questa situazione era impensabile organizzare un campionato nazionale e, proprio nell’estate del 1943, Gèza Kertèsz tornò in Ungheria, dove gli venne affidata la guida di un’altra gloriosa squadra di Budapest: l’Ujpest.
L’Ungheria era alleata della Germania nazista e dell’Italia fascista, e anche da quelle parti la guerra stava per travolgere tutto. Fallita dai tedeschi l’Operazione Barbarossa contro l’Unione Sovietica, fortemente sostenuta dal governo autoritario ungherese, l’Armata Rossa invase l’Ungheria e proclamò la Repubblica Popolare, subito contrastata dai tedeschi che a loro volta la invasero. Hitler occupò Budapest favorendo la costituzione di un nuovo governo filonazista che instaurò un violento regime di terrore.
Géza Kertész non chiuse gli occhi dinanzi ai soprusi e alle crudeltà prodotte dall’occupazione tedesca. In quei mesi a Budapest incontrò di nuovo Istvàn Tòth, proprio quel vecchio amico che aveva giocato con lui ai tempi del Ferencvàros e che, insieme a lui, aveva cercato fortuna da allenatore in Italia guidando Ambrosiana Inter e Triestina. Insieme diedero vita al Gruppo Melodia, una banda di resistenza che compì alcuni sabotaggi ai danni dei nazisti ma soprattutto organizzò un ardito sistema per liberare gli ebrei dal ghetto dove stavano morendo di fame o fucilati dalle SS, o da dove stavano per essere deportati nei campi di sterminio.
Forti del loro perfetto accento tedesco, i due allenatori si vestivano da ufficiali germanici, prelevavano gli ebrei dal ghetto, li facevano uscire e li aiutavano a fuggire. La rete di resistenza durò un anno, intrattenendo rapporti con i servizi segreti statunitensi, salvando tante persone, fino a quando una spia denunciò i due allenatori e cinque loro compagni. A Géza perquisirono la casa, dove trovarono nascosto una famiglia delle tante che aveva liberato. La Gestapo fucilò Géza, Istvan e i loro cinque compagni il 6 febbraio 1945.
Una settimana dopo, il 13 febbraio, la capitale veniva liberata dai nazisti. Al funerale parteciparono migliaia di persone, molte delle quali provenienti dall’Italia. Gli fu riconosciuto il titolo di martire della patria ed è seppellito al Cimitero degli eroi di Budapest.
Nel nome di un ideale di uguaglianza e libertà che lo spinse a mettere in gioco la propria vita, morì uno dei maestri del calcio di inizio secolo. L’epilogo della sua storia, le vicende extracalcistiche, l’azione di resistenza e la vita spesa per salvare decine di ebrei e oppositori politici del nazismo sono stati poi cancellati dal successivo regime comunista ungherese, perché la sua banda partigiana era d’ispirazione nazionalista.
Non basta ricordare Auschwitz come monito per le nuove generazioni, occorre tramandare anche l’operato di uomini giusti che, come Géza, possono essere ancora esempi per il futuro.
27 gennaio 2020