di Francesca Radaelli
Quando entriamo per la prima volta, loro sono seduti uno di fianco all’altro, quasi schierati. Sono circa una ventina ad aspettarci, dentro a una sala piuttosto ampia. Alle pareti ci sono dipinti e cartelloni colorati. Spiegheranno che è questo il luogo in cui si svolgono laboratori e attività artistiche. “Lo spazio dell’ora d’aria non è tanto più grande di questa stanza”, dirà qualcuno a un certo punto. Di colpo la stanza non sembrerà più così spaziosa.
Loro sono i giovani ‘dentro’: hanno tra i venti e i trentacinque anni e trascorrono le loro giornate all’interno delle mura della casa circondariale di Monza.
Noi, invece, nemmeno una decina al primo incontro, siamo i giovani ‘fuori’. La definizione è di don Stefano della Caritas di Monza, che ci ha raccolto negli oratori e nei gruppi scout: molti di noi non si conoscono e non si sono mai visti prima. C’è chi va ancora a scuola, chi all’università, chi lavora.
Per tutti, mentre percorriamo per la prima volta i corridoi del carcere, accompagnati dalle guardie che ci fanno strada e dal rumore secco delle serrature che si aprono e si chiudono davanti e dietro di noi, la sensazione è quella di entrare in un altro mondo.
L’incontro tra ‘giovani dentro’ e ‘giovani fuori’ è stato fortemente voluto da don Augusto, direttore della Caritas di Monza e infaticabile cappellano del carcere, e il progetto si articola su quattro giornate di dialogo, all’interno del carcere, tra giovani dentro e giovani fuori, accompagnati da momenti di incontro e riflessione all’interno del gruppo dei giovani ‘fuori’.
All’inizio sono solo i giovani dentro a parlare, impazienti di raccontarci il carcere, con un pizzico di orgoglio, e con la consapevolezza di svelarci un mondo di cui noi non sappiamo nulla e loro tutto. Un mondo governato da regole tutte sue: la battitura del mattino sulle sbarre, il rumore delle chiavi, le sezioni pari e le sezioni dispari, la distinzione tra ‘imputato’ e ‘definitivo’, la mancanza di Internet.
Ben presto, raccontandosi come fiumi in piena di fronte a noi giovani fuori – che li ascoltiamo senza quasi osare intervenire – i giovani detenuti iniziano a discutere tra loro: non tutti vivono il carcere nello stesso modo, non da tutti il riscatto è visto come una strada percorribile, per qualcuno il carcere è un’occasione, per altri un’ingiustizia, per altri una condanna capace di ‘marchiarli’ per tutta la vita.
“Cosa siete venuti a fare voi qui dentro?”: la domanda di uno di loro ci colpisce all’improvviso come un fulmine. Probabilmente ce la stiamo ponendo da quando siamo entrati, ma ora ci si presenta in tutta la sua grandezza. “Volete aiutarci?”. O forse piuttosto guardarci, come animali in uno zoo? Nessuno la formula, ma quest’ultima domanda sembra aleggiare nell’aria.
Che cosa rispondere?
La difficoltà di abituarsi alla mancanza di libertà. Le giornate passate da soli, chiusi in se stessi e poi a un certo punto, improvvisa, la decisione di aprirsi e far entrare qualcun altro. La consapevolezza che il perdono non dipende dal proprio pentimento e la decisione di provare a vivere nonostante questo. Il futuro e il passato. Gli amici che ti abbandonano e le persone che continuano a volerti bene, nonostante tutto.
“Quando sto ai domiciliari, la gente cambia strada pur di non salutarmi: sono marchiato”.
“Meglio il carcere che i domiciliari. Quando si esce bisogna cambiare paese per ricominciare”.
“Mi piaceva fare la bella vita, ho sempre messo in conto i rischi; sempre meglio che lavorare per 1000 euro al mese. Ma poi è stato come un precipizio”.
“E’ come essere caduto da cavallo: tante volte sono caduto e rimontato, ma un giorno mi sono rotto le ossa”.
“Il tempo è l’unica cosa che hai. Non ho mai avuto tanto tempo come ora”.
Usciti dal carcere, sentiamo dentro di noi l’eco del ‘bombardamento’ di parole e immagini che ci hanno travolto nel faccia a faccia con quei ragazzi così simili a noi, la cui vita ha percorso però binari tanto diversi. Al termine degli incontri, la domanda non è più cosa siamo ‘entrati’ a fare. Piuttosto: che cosa vogliamo fare dei frammenti di vissuti ed esperienze che, in qualche modo, ci sono stati ‘affidati’ dai giovani detenuti? Che cosa possiamo portarci ‘fuori’?
“Posso dire che la domanda che mi pongo maggiormente dall’ultimo incontro con i detenuti è il senso che tutto ciò può avere nella mia vita, e soprattutto mi chiedo come posso rendere “utile” agli amici, ai conoscenti, ai familiari l’esperienza che ho fatto. Durante i tre incontri a cui ho assistito mi sono resa conto sempre di più della grande voglia che i ragazzi detenuti avevano di raccontarsi, di parlare tra di loro e con noi, di confrontarsi su tematiche che toccano da vicino tutti noi, nonostante la differenza di vissuto. Alcuni ragazzi mi sono sembrati soprattutto amareggiati ed arrabbiati rispetto alla loro condizione, e dunque meno “pronti” ad affrontare un percorso di riflessione e di auto-responsabilizzazione rispetto ai propri errori. Altri, invece, trasmettevano veramente la volontà di migliorare se stessi, con una forza ed una maturità che mi hanno stupito molto, e dalle quali mi sembra di poter imparare qualcosa.
Questo è, in breve, il pensiero che mi sono fatta dopo questi incontri, che spero possano proseguire anche nel prossimo anno”.
Fulvia
“Uno dei motivi per cui ho scelto di iniziare questo percorso sono stati i grandi pregiudizi che nutrivo nei confronti dei carcerati. È stato meraviglioso entrare in carcere la prima volta e vederli sgonfiare uno a uno, nel giro di un paio d’ore. Nel momento in cui lasci ai ragazzi la possibilità di spiegarsi, di raccontare le loro storie, scopri un mondo di cui nessuno ti aveva parlato prima. Ho imparato che nessuno di loro è solo un carcerato, ma tutti sono anche molto altro: fratelli, figli, mariti, musicisti, idraulici, uomini. È bastato entrare lì da loro, sedersi ed ascoltare per capire che la loro realtà non è quella che noi conosciamo o pensiamo di conoscere. Forse un grosso problema del nostro stare al mondo, del nostro stare fuori è proprio questo: che abbiamo perso la capacità di ascoltare e di compatire, nel senso proprio di partecipare del loro patimento. Basterebbe davvero così poco per cambiare le cose: non la realtà del loro stare dentro, ma la realtà che troveranno fuori, una realtà che al momento li fa sentire come se non fossero mai usciti, che li etichetta senza nemmeno conoscerli”.
Anna
“Quest’anno la Caritas ci ha dato la possibilità di intraprendere un percorso con i ragazzi del carcere di Monza. Quando mi è stato proposto ero molto emozionata all’idea di potermi confrontare con ragazzi aventi un vissuto completamente diverso dal mio. Durante questi incontri ci siamo confrontati su svariati temi quali l’ingiustizia, la vita in carcere e le esperienze personali.
Grazie a questo progetto ho capito il funzionamento del sistema carcerario. Credo che spesso i carcerati vengano ritenuti criminali e che i loro errori vengano valutati più della loro persona, ma in realtà, incontrandoli si viene davvero a conoscenza del loro essere senza badare alle loro etichette.
Consiglio a tutti di intraprendere questo percorso perché aiuta a capire una realtà diversa rispetto al nostro quotidiano e a vedere gli altri non solo in base agli errori commessi”.
Irene
“Io, don Stefano, entro in carcere, ma non è la prima volta. Ho già avuto l’incontro con il carcere a Bollate, ad Opera, a san Vittore a Milano… e con i carcerati fuori, quelli che tentano di rifarsi una vita, che portano i figli all’oratorio perché in oratorio hanno dei ricordi infantili ma belli; quelli che invece dal mio oratorio ho visto finire in carcere; quelli che meno male che sono in carcere perché mi hanno rovinato dei ragazzi dell’oratorio… insomma io sono fuori, ma un po’ sono anche dentro.
Negli incontri con questi giovani carcerati ho cercato di portare sempre il dialogo su un profilo di umanità: l’unico elemento che sicuramente ci accomuna. Inutile parlare di giustizia in senso generale, di avvocati, giudici, processi, reati, carcere, guardie, celle, orari, sconti di pena. Parliamo di noi: “Dimmi chi sei, non cos’hai fatto; dimmi prima chi sei! Dimmi cosa speri di diventare e per chi”. Lì ci siamo davvero guardati negli occhi e ci siamo incontrati nel cuore. Ho pensato più volte a come starei se fossi il padre di uno di loro, o il figlio; ma anche una loro vittima o il familiare di una loro vittima.
Forse ciò che più di tutto ho imparato da questo ennesimo incontro con il Carcere e il suo popolo è che ogni uomo è importante, ogni uomo. Forse qualcuno è perduto per sempre, ma se li guardo così, forse per qualcuno c’è una possibilità: quella che gli do io.
don Stefano