di Francesca Radaelli
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…
Nasce il 31 dicembre 1855 il poeta autore delle raccolte ‘Myricae’ e ‘I Canti di Castevecchio‘, considerato da molti l’ultimo dei classici e il primo dei moderni. Pochi mesi prima aveva pronunciato il celebre discorso ‘La grande Proletaria si è mossa’, a sostegno della campagna coloniale in Libia voluta dal governo Giolitti. Negli ultimi anni della sua vita l’autore de ‘Il gelsomino notturno’ si era infatti appassionato ai temi storci e politici, scrivendo una serie di componimenti che rientrano nel filone della cosiddetta ‘poesia civile’, retorica e impegnata, e proponendosi come poeta investito di un’importante missione sociale.
Ma il vero poeta ‘vate’ di quel periodo è un altro, è quel D’Annunzio infervorato e un po’ esibizionista che fece della sua vita uno spettacolo e divenne uno dei primi ‘miti di massa’. Pascoli ha un carattere molto diverso, è introverso e fragile, per lui il poeta non è un superuomo, ma un ‘fanciullino’ in grado di percepire i legami segreti tra le cose, “che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione”, capace di intuire ciò che la gente comune non vede, ciò in cui risiede il significato più profondo del mondo.
Un significato che si dischiude progressivamente alla mente del poeta mentre questi osserva e ascolta la natura, entrando in sintonia con essa e riproducendone i suoni attraverso la parola poetica, come accade nella bellissima poesia ‘L’assiuolo’. Un significato spesso doloroso e tremendo su cui incombono inquietanti presagi di morte. Perché se Pascoli, a differenza di D’Annunzio, non cerca le avventure galanti, né tantomeno una vita da ‘eroe’, un motivo c’è. Ed è proprio nell’infanzia del poeta che bisogna ricercarlo. Per tutta la sua vita, infatti, Pascoli tenta soprattutto di ricostruire il nucleo, anzi il ‘nido’ famigliare perduto per sempre. Un nido spezzato e distrutto quel 10 agosto del 1867, la notte in cui il padre Ruggero viene ucciso a tradimento sulla strada di casa. Quella notte, di San Lorenzo, a cui è dedicata la poesia che si intitola proprio ‘X agosto’, in cui l‘assassinio del padre è paragonato a quello di una rondine uccisa dal cacciatore mentre sta tornando al nido, provocando il ‘pianto di stelle’ in cui si esprime tutto il dolore del mondo naturale di fronte al male presente sulla Terra:
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
[…]
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
Sono diversi i lutti familiari che segnano sin da subito l’esistenza del poeta nato il 31 dicembre 1855 a San Mauro di Romagna, in provincia di Forlì: dopo il padre, muoiono ben presto anche due fratelli e la madre.
Pascoli, che nel frattempo studia Lettere e intraprende la professione di insegnante, si lega allora in un rapporto quasi morboso alle due sorelle, Ida e Maria, in particolare a quest’ultima, che lui chiama Mariù e con la quale si stabilisce nella casa di campagna di Castelvecchio di Barga, vicino a Lucca. Sarà proprio lei, Mariù, dopo la morte del fratello, a curare la pubblicazione degli ultimi scritti del poeta. Che, in fin dei conti, è sempre rimasto un ‘fanciullino’.