Giuseppe Verdi, il nome che unisce come un simbolo

VerdiGdi Alessandro Arndt Mucchi

La forza simbolica di Giuseppe Verdi è notevole: dal Risorgimento, che arriva a rubargli il cognome per farne un inno all’unità d’Italia, ai tempi moderni con la Lega che vuole il Va Pensiero per dividere l’Italia sul Po (o almeno lo voleva ufficialmente fino a qualche anno fa). Un curioso dualismo tra unità e divisione, posizioni apparentemente distanti, ma unite dal comune denominatore della voglia di fare proprio il compositore emiliano. I grandi italiani non sono cosa rara, siamo un popolo che brilla per i singoli più che per risultati condivisi, e allora cos’ha di così speciale Giuseppe Verdi?

Oggi, duecentocinquesimo anniversario della nascita del musicista, potremmo anche fare la solita analisi delle sue composizioni cercando di comprimerla in qualche migliaio di caratteri, rischiando fortissimo di ripetere cose già dette centinaia (forse migliaia) di volte, oppure si può tentare la mossa furbetta di un approccio parallelo e solo sfiorare le sue note, concentrandosi sul Verdi simbolo, sul Verdi politico.

I rapporti tra Verdi e l’impegno pubblico vanno ben oltre il “Viva Verdi” che ricordiamo dalle lezioni di storia, solo la punta di un iceberg che s’immerge nella passione di quella metà Ottocento che era tutta una rivoluzione. L’Italia si univa nel 1861 sotto a Vittorio Emanuele II e il compositore era tra le personalità più in vista per il movimento: da un lato attivamente interessato alle questioni nazionali, ma dall’altro usato come simbolo. Le sue opere vengono spulciate alla ricerca di messaggi nascosti, di inni all’unità, e il suo incrociare la strada di Cavour e Mazzini non può che alimentare le voci che lo vogliono in prima fila.

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La casa natale di Verdi a Roncole di Busseto

Sono le sue stesse parole a ridimensionare la faccenda, confesserà infatti di avere accettato l’incarico come Deputato nel Parlamento del Regno di Sardegna (che nel giro di pochi mesi diventerà Parlamento del neonato Regno d’Italia) a condizione di potersi dimettere nel giro di poche settimane, e del resto il fatto di non avere mai partecipato attivamente ai lavori del Senato dove entra nel 1874 su nomina regia (non era elettiva la camera alta) è a riprova di una personalità lontana dall’agone politico.

La passione c’era, questo è indubbio, ma è evidente che Verdi non fosse uomo da stare in prima fila, anzi, sono molteplici le fonti che lo disegnano come schivo e infastidito dai riflettori e dall’attenzione mediatica.

Da simbolo dell’unità di Italia, Verdi diventa per alcuni simbolo di divisione. Oggi che la Lega Nord sta attraversando una profonda trasformazione non è più così frequente (e infatti mancano i riferimenti sul sito del partito), ma fino a qualche anno fa il Va Pensiero era considerato l’inno ufficiale della Padania. Ancora si trovano citazioni dell’aria in qualche portale locale, magari di piccoli comuni illuminati dal sole delle Alpi, ma sono lontani i giorni del celodurismo bossiano e anche Verdi ne risente.

Gli sfottò a indirizzo dei leghisti che usano il canto degli schiavi ebrei per gridare la loro identità si sono sprecati, e non sono mancate le polemiche da destra e sinistra, ma il dato veramente interessante della faccenda è nella forza delle note di Verdi. Il Va Pensiero evoca appartenenza, parla direttamente alla parte più emotiva degli ascoltatori e spinge le lacrime commosse verso il confine degli occhi. Gli unici che forse non lo sopportano sono gli orchestrali obbligati a suonare in fa diesis maggiore, per il coro invece cambia poco.

Allora smentiamo l’incipit perché Verdi non è simbolo di unità o simbolo di divisione, Verdi è simbolo punto e basta. Lo si usava per smuovere la pancia dei (quasi) italiani a metà Ottocento, e si usa per riscaldare e unire le valli del nord.

Quando la musica è capace di fare così tanto, per così tanti, non si può che levarsi il cappello e riconoscere un grande.

 

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