di Laurenzo Ticca
“Così non si può più vivere. E’ tutto marcio”. Quando Michail Gorbaciov (alla testa del Pcus dal 1985) pronunciò queste parole rivolgendosi al suo amico e compagno Eduard Shevardnadze (futuro ministro degli Esteri) non sapeva che la sua decisone (avviare la perestrojka cioè la ristrutturazione del sistema) e favorire la glasnost (trasparenza) avrebbe accelerato l’implosione di un sistema di potere irriformabile.
Chiamato a guidare l’Urss dopo la morte di Khonstantin Chernenko, Gorbaciov era consapevole della crisi profonda in cui era precipitato l’impero sovietico. Decise di avviare una serie di riforme radicali. Gli obiettivi erano ambiziosi (salvare la natura socialista del sistema, non perdere il confronto con gli Usa, uscire dalla crisi, battere la corruzione e l’immobilismo). Gorbaciov prese per mano l’Urss e, suo malgrado, la condusse al fallimento, chiudendo un’ epoca storica aperta nel ‘17 da Lenin. Introdusse elementi di mercato, di pluralismo politico (non partitico) attenuò la censura, liberò energie, avviò una serie di privatizzazioni. L’esito fu catastrofico.
Risvegliare l’orso sovietico dal dispotismo comunista era semplicemente impossibile. Impossibile trasformare un plantigrado lento e appesantito, dalla burocrazia, dalla repressione e dalla mancanza di libertà, in un gazzella capace di superare gli ostacoli. La crisi era entrata in profondità nelle viscere dell’impero. Crisi politica, morale, economica. Milioni di uomini e donne vivevano nell’indigenza. Tutto, intorno, stava franando. A partire dal rapporto tra Mosca e la sua immensa periferia (dai paesi baltici all’Asia centrale). A nulla valsero i successi in politica estera (accordi con gli Usa per il disarmo, ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan). Un programma ambizioso che, di fronte alla radicalità della crisi, avrebbe avuto l’effetto di un farmaco omeopatico somministrato a un corpo morente.
L’agonia del sistema portò al tentato golpe del 1991, alla emarginazione di Gorbaciov e alla crisi sanguinosa del 1993, dalla quale sarebbe emerso un nuovo leader. Quel Boris Yeltsin che avrebbe scelto come proprio delfino un uomo forte, emerso dagli apparati di sicurezza, dal Kgb. Un certo Vladimir Putin.
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