di Francesca Radaelli
“Madame Bovary c’est moi”. Madame Bovary sono io. Cosa avrà voluto dire Gustave Flaubert con questa affermazione un po’ sibillina? L’8 maggio 1880 il grande scrittore francese si spegneva nella sua casa di campagna di Croisset, nei pressi di Rouen, la città in cui era nato appena cinquantanove anni prima. Madame Bovary c’est moi, d’accordo. Ma chi è Madame Bovary?
Emma Bovary è la protagonista dell’opera più famosa dell’autore, di un romanzo condannato per immoralità, giudicato addirittura osceno dalla borghesia dell’Ottocento. Accuse che, andando a leggere l’opera incriminata, non possono che far sorridere il lettore di oggi, alle prese con le Cinquanta sfumature di grigio, dopo essere sopravvissuto ai Cento colpi di spazzola di qualche tempo fa.
Perché Madame Bovary è semplicemente una donna, dell’Ottocento, a cui sta un po’ stretta la quotidianità borghese in cui si trova a passare la vita, una donna i cui sogni e le cui aspirazioni fluttuano in un ideale romantico che la porta a cercare l’amore, quello vero e profondo, al di fuori del matrimonio, al di là di quel mediocre medico di campagna che si ritrova per marito. Una donna incapace di accontentarsi di ciò che ha, che si annoia profondamente nella prosaica campagna francese, che va in cerca di quelle emozioni di cui parlano i romanzi che hanno formato il suo immaginario. E che in questa ricerca è destinata a soccombere tragicamente. Un’eroina romantica che paga con la vita la volontà di elevarsi al di sopra del gretto universo borghese? Oppure una sciocca insopportabile con manie di grandezza e una visione distorta della realtà? Al lettore la difficile sentenza.
Lo stile del romanzo
Ciò che forse incuriosisce di più nel romanzo è però il fatto che Flaubert racconta la storia di Emma con un tono, un linguaggio e uno stile che sono quanto di più lontano si possa pensare dall’immaginario romantico e dalle passioni infervorate di cui si nutre la protagonista. Uno stile realistico, ‘naturalistico’ e oggettivo, con cui Flaubert sembra voler prendere le distanze da quel romanticismo di cui lui stesso si era alimentato da giovane, e di cui si vedono i riflessi nelle sue prime opere. “Madame Bovary sono io”, appunto. Insomma, forse lo scrittore, ‘uccidendo’ Emma Bovary sul piano della forma prima ancora che su quello della sostanza, ha voluto uccidere una parte di se stesso.
Quella parte che lo ha spinto a divorare ancora giovanissimo i libri dei grandi romantici, da Lord Byron a Goethe, a scrivere opere che, adulto, avrebbe giudicato imbarazzanti, a viaggiare in Francia, in Italia e persino in Oriente, trascinato dal desiderio di vivere le esperienze esotiche che descriverà nelle lettere del suo epistolario. Ma, a un certo punto, Flaubert decide che ha viaggiato, e forse vissuto, abbastanza e si ritira nella proprietà di Croisset. A scrivere. E scrive, in solitudine, lontano da ogni distrazione. Non è uno scrittore molto prolifico, tra i suoi romanzi, oltre a ‘Madame Bovary‘, ci sono ‘Salammbò‘, opera storica ambientata nell’antica Cartagine, e poi l’‘Educazione sentimentale‘, che racconta la parabola di Frédéric Moreau, forse suo alter ego (o forse no), per finire con ‘Bouvard e Pécuchet’, l’ultimo romanzo incompiuto i cui protagonisti sono due copisti che si trasferiscono in campagna e tentano di cimentarsi nei vari rami del sapere, dall’agricoltura all’archeologia con esiti catastrofici (e comicissimi) .
Insomma, a 135 anni dalla sua morte, chi era Gustave Flaubert, lo scrittore che non voleva essere romantico? Quanto di sè è stato disposto a mettere nei romanzi che ha scritto, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo?
Forse, il modo migliore per cominciare a scoprirlo è quello più ovvio e semplice: prendersi il tempo necessario per leggerli.
8 maggio 2015