di Mattia Gelosa
L’ultima fatica di Tarantino, reduce dai bellissimi Bastardi senza gloria e Django, è ancora un film che gioca sul genere del western, ma rispetto ai precedenti risulta una macchina a ingranaggi inceppati.
Centosessantasette minuti di pellicola divisi come sempre in capitoli, ma in realtà composta da tre macroparti: nella prima un cacciatore di taglie nero e il futuro sceriffo di Red Rock, bloccati a piedi in un una bufera di neve, chiedono in tempi diversi un passaggio a una diligenza con a bordo un altro bounty killer e una donna che deve consegnare alla legge; nella seconda i quattro e il loro cocchiere arrivano a Red Rock e si riparano in un emporio assieme ad altre quattro persone, tra cui un boia e un ex generale della Guerra d’Indipendenza. Qui, gli otto si conosceranno e inizieranno presto a nascere sospetti e rancori legati ai loro credo politici e al razzismo, finchè la situazione degenera quando arriva il primo omicidio, viene avvelenato il caffè e si comprende che qualcuno è complice della donna e vuole liberarla. Nell’ultima parte, grazie a un flashback, comprenderemo come stiano davvero le cose, prima della sparatoria finale che chiude i conti tra i cowboy.
Il problema del film è evidente già dal riassunto della trama: se il suo maestro Sergio Leone in tre ore di film faceva accadere eventi a valanga, Tarantino riempie il tempo di dialoghi esasperati e, purtroppo, esasperanti. Lo spettatore che lo conosce lo sa, ma stavolta i personaggi non sono simpatici e nemmeno odiosi come si vorrebbe, anzi, sono così privi di spessore che anche a fine film quasi ci si confonde su chi fosse che cosa.
Con i generi l’americano gioca sempre, ma non l’ha mai fatto così male, perchè se in Bastardi e Django avevamo momenti di vero western, qui di quel genere sbandierato come ispirazione di tutto abbiamo solo lo sfondo, le pistole e la diligenza. La critica trova una connessione con il giallo della Christie, specie 10 piccoli indiani, ma onestamente da appassionato lettore della signora del giallo ritengo tale affermazione poco sensata e fuorviante: non c’è nessuna tensione, nessuna indagine, solo un crimine, il caffè avvelenato, risolto in pochi minuti e poco rilvenate nell’insieme delle cose. Come una diligenza e dei cowboy non fanno un western, così un tentato avvelenamento e persone che mentono sulla loro identità non fanno un giallo!
In definitiva abbiamo un Tarantino fuori forma e con poche idee, che calca troppo la mano su dialoghi sottotono e diventa banale anche nelle scene splatter, altro suo punto di forza. Il 70 mm usato per le riprese e la collaborazione di Morricone sono gli altri due colpi sparati a salve che hanno lasciato delusi moltissimi fan: il formato scelto è adatto per gli esterni e i panorami, dunque in un film ambientato prima dentro una diligenza e poi in una locanda è inutile; le musiche sono state sfruttate poco e i temi richiamano più il genere horror del western, ma sono piuttosto banali e per nulla memorabili, come se anche lo stesso Morricone abbia avuto difficoltà nel trovare un’anima da esaltare in questo film.
Ecco, il grande problema di The hateful eight è proprio questo: tutto scorre freddo e interessa poco, facendo sì che la pellicola sia un buon prodotto estetico a cui manca una vera anima.