di Alfredo Somoza
Le elezioni presidenziali 2014 in Brasile saranno ricordate non soltanto perché le due candidate con chance di vittoria sono entrambe donne – la presidente in carica Dilma Rousseff e l’ex ministro dell’Ambiente del Governo Lula, Marina Silva – ma anche perché, al di là del risultato, scrivono una nuova pagina della storia latinoamericana.
Una pagina che si inserisce in un capitolo iniziato di recente: quello dell’“ascensore” sociale e politico che, dopo secoli e secoli in cui è rimasto inchiodato al piano dei discendenti dei conquistatori e delle oligarchie terriere e industriali, ha finalmente cominciato a muoversi.
La candidata ambientalista Marina Silva, alleata dei socialisti, ha sul piano personale molto più in comune con Lula che con Dilma Rousseff. Dilma, che è stata guerrigliera, detenuta e torturata dai militari, appartiene alla classe medio-alta di Belo Horizonte ed è figlia di un immigrato europeo. Lula apparteneva invece al popolo del profondo Nordest, la regione più povera del Brasile. Cresciuto insieme ad altri 7 fratelli dalla madre sola, emigrò verso São Paolo dove da bambino vendeva arance per strada per poi diventare operaio metalmeccanico, sindacalista e leader politico.
La vita di Marina Silva è ancora più incredibile rispetto ai “canoni del potere” ai quali siamo abituati. Figlia di una coppia di afroamericani che vivevano in una baraccopoli su palafitte nello Stato dell’Acre, nel cuore dell’Amazzonia, è una dei 3 fratelli su 11 a superare l’infanzia. Un’infanzia segnata da privazioni e malattie: epatite, malaria, avvelenamento da piombo. Analfabeta fino a 16 anni, viene accolta in un collegio di suore e il suo primo lavoro è quello di donna delle pulizie. Poi la laurea in Storia, la passione per l’ambiente, la fondazione del Sindacato di raccoglitori di caucciù insieme a uno dei martiri della lotta ambientalista mondiale, Chico Mendes. Infine il Partito dei Lavoratori e il ruolo di Ministro dell’Ambiente nel primo Governo Lula, fino alla rottura politica e alla sua corsa solitaria.
Una biografia davvero fuori dal normale, che perfino la penna di un romanziere avrebbe faticato a immaginare. Un “miracolo” in un Paese che crede sinceramente ai miracoli. E la dimostrazione che l’ordine sociale del vecchio sistema coloniale, sopravvissuto per oltre un secolo dopo l’indipendenza, alla fine della Guerra Fredda si è spezzato. A partire degli anni ’90 del secolo scorso, in America Latina sono arrivati al governo ex guerriglieri, ex torturati e perseguitati, e ancora più significativamente sono arrivati alle massime cariche politiche indios, donne, cittadini poverissimi.
Il Brasile che ha avuto come presidente il venditore di arance e ora ha come potenziale leader la bambina miracolata dell’Amazzonia fa il paio con la Bolivia di Evo Morales, bambino di strada cresciuto nelle baraccopoli della periferia di La Paz, e con l’Uruguay di Pepe Mujica, piccolissimo produttore agricolo che tuttora si accontenta con uno stipendio che in Italia sarebbe da pensionato sociale. La forza di queste leadership è l’identificazione, l’empatia che riescono a creare con il loro elettorato. I poveri, che fino a non molto tempo fa votavano per i leader televisivi, belli ricchi e vincenti, oggi votano persone che sono state come loro. In Sudamerica, infatti, i ceti più deboli sono tornati a votare a sinistra dopo avere sostenuto i Menem, i Fujimori, i Cardoso. Oggi l’essere stato povero è un biglietto da visita vincente, non più un marchio quasi d’infamia. Una clamorosa smentita alle certezze delle telenovelas, nelle quali l’unica redenzione per i poveri passa dal matrimonio con il giovinastro ricco e bello, disposto addirittura a piangere per fare accettare alla sua famiglia la colf diventata fidanzata.
In politica, negli ultimi anni, in America Latina anche i poveri ridono. Almeno qualche volta.