I racconti del melograno: i vetri socchiusi

di Francesco Troiano

Avevo sei anni, ed era il periodo che i miei mi spedivano in treno con la zia Lola al mare.

Il momento dell’arrivo in stazione, della salita in treno e poi della partenza, era avvolto della stessa ansia che oggi, a sessantadue anni, provo ancora quando devo partire.

La porta del vagone si apriva direttamente nello scompartimento. Tutto l’insieme ricordava il set di un film western: il tessuto dei sedili e lo strapuntino di rete.

Quando i binari iniziavano a costeggiare il mare, mi piaceva vedere i bagnanti sulla spiaggia che al nostro passaggio si sbracciavano per salutare.

 

A casa dei miei zii a Pescara, la prima immagine è una vasca di quelle corte. Mia zia Nenne che m’immerge nell’acqua tiepida con il sapone di Marsiglia appoggiato sul bordo. Dal finestrino del bagno vedevo i rami della pineta e, mentre la zia mi lavava la schiena, pensavo già alla spiaggia e ai miei cugini pronti con tutti gli accessori.

Dai vetri socchiusi entrava il profumo delle pigne giovani e la nostalgia di mamma e papà spariva piano piano.

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