Il mondo del calcio nel nostro Paese si sta muovendo parallelamente e in verso concorde alla crisi economica e di valori che investe l’Italia.
Le grandi squadre italiane non sono più in grado di imporsi in campo internazionale, tanto che è dal lontano 2009-2010 (anno del famoso Triplete interista con Mourinho) che un team italiano non raggiunge la finale di una competizione internazionale.
La stessa nazionale italiana di calcio, per tradizione seconda nel mondo soltanto al Brasile, è dal lontano 2006 che non ottiene successi ai Mondiali. Le ultime due edizioni, l’ultima conclusasi la scorsa estate, hanno portato pessimi risultati, nettamente al di sotto delle aspettative.
Come uscire da un simile periodo di crisi del calcio italiano?
Anche in questo campo la soluzione può essere affidarsi ai giovani e dar loro fiducia. È proprio quest’ultima che spesso manca nel campionato italiano: la fiducia nei giocatori cresciuti nel settore giovanile.
Il campionato italiano è ormai diventato una sorta di trampolino di lancio per i giovani, i quali si mettono in mostra in Serie A ed in Serie B e, dopo un paio di stagioni, se va bene, vengono acquistati da squadre inglesi o tedesche, le quali hanno a disposizione più rilevanti quantità di denaro.
La maggior parte di questi introiti proviene dal merchandising, ossia dalla commercializzazione di prodotti con il nome o il marchio della società, che possono essere direttamente connessi al mondo del calcio (magliette, scarpe, cappellini, bandiere) o oggettistica utilizzata quotidianamente, (portachiavi, portafogli, spallette, articoli di cancelleria). Altri prodotti commercializzabili possono essere legati addirittura al comparto di servizi, come le carte di credito o il bancomat.
L’Italia, in un momento decisamente difficile per l’economia ma anche per il settore, perde anche la battaglia del merchandising, che invece rappresenta una voce di introito sempre più importante per l’Europa, in particolare nel modello vincente tedesco, che punta indistintamente su tutto: non solo stadi e diritti tv, ma anche settori giovanili e appunto marketing.
I club italiani, Juve a parte, hanno come introiti i soli diritti tv e la vendita dei giocatori “pregiati” utili per fare cassa e reinvestire, raramente sui giovani, più spesso sui campionati minori. E poco conta allora se fra i 5 top club di Nike e Adidas (per i quali le due griffe spendono rispettivamente e nel complesso 125 e 135 milioni di euro), compaiono comunque tre squadre dello Stivale: Inter e Juventus equipaggiati dagli americani, il Milan dai tedeschi.
Inoltre, le nostre squadre, rispetto alle altre europee, hanno età media decisamente superiore. Basta confrontare la Juventus, che è l’unica squadra italiana ancora in corsa in Champions League, dove l’età media è di 27,4 anni, con i campioni in carica del Real Madrid di Ancelotti dove l’età media è di 25,6 anni. Quando il Milan, nel 2007, vinse ad Atene contro il Liverpool, l’età media dei giocatori superava i 30 anni, la più elevata di sempre.
A conferma che il nostro non è un Paese per giovani.
Alessandro Cosattini