Il luogo dove ebrei e palestinesi con-vivono in pace

di Francesca Radaelli

Una storia che ha dell’incredibile. Così è stata presentata, lo scorso lunedì 30 settembre, la realtà del villaggio Neve Shalom Wahat al Salam, protagonista della prima serata del ciclo di incontri di formazione dell’ultimo lunedì del mese intitolato “Donne per la pace”, promosso da Caritas Monza e Fondazione Monza Insieme presso la biblioteca del Carrobiolo. E davvero difficile da credere appare, di questi tempi, che ebrei e palestinesi possano vivere pacificamente insieme sulla stessa terra, partecipando attivamente alla costruzione di una comunità unita.

Eppure, è proprio ciò che accade a Neve Shalom Wahat al Salam, villaggio situato in Israele, a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv. Qui hanno scelto di vivere insieme, da vicine di casa, 100 famiglie – 50 ebree israeliane e 50 palestinesi con cittadinanza israeliana – che a partire dagli anni Settanta, grazie all’intuizione di Bruno Hussar, padre domenicano di origine ebraica, hanno dato vita a una comunità multireligiosa binazionale.

Un’utopia che diventa realtà. Un luogo impossibile da immaginare oggi, che però esiste.

“Questa esperienza è un raggio di sole in un momento di buio”, ha sottolineato Fabrizio Annaro introducendo la serata. “E’ la dimostrazione che è possibile fare qualcosa per la pace, oltre gli appelli, che la pace si può costruire, che è possibile generare comunità. Insomma, che possiamo pensare anche noi di poter fare qualcosa, che non dobbiamo rinunciare ai sogni”.

La serata ha visto il dialogo tra la giornalista Donatella di Paolo, che sarà conduttrice dell’intero ciclo di incontri di formazione, e Giulia Ceccutti, responsabile della comunicazione dell’Associazione Amici di Neve Shalom Wahat al Salam.

Da sinistra: Donatella Di Paolo e Giulia Ceccutti

Un modello “esportabile”?

Al pubblico in sala, che ha visto la partecipazione di alcuni studenti del liceo Frisi, viene è stato proposto un video girato al villaggio, con interviste ad alcuni dei residenti. Proprio da questo filmato ha inizio la conversazione: “Parole come pace, tolleranza, comprensione, rispetto reciproco, empatia, solidarietà, che ricorrono nelle testimonianze delle persone del villaggio, rappresentano tutto ciò che ora non succede in questi territori”, commenta Donatella Di Paolo, “Il villaggio appare un’eccezione. Ma questo esempio potrebbe essere preso come modus vivendi? Può esistere davvero una possibilità di pace? Loro ce l’hanno fatta, dopotutto…”

Riprendendo le parole degli abitanti del villaggio, Giulia Ceccutti risponde che si tratta di un modello che si vorrebbe esportare su scala ampia. “L’esperienza oggi è limitata perché è limitata la terra a disposizione, anche se nel prossimo futuro la realtà del villaggio si estenderà da 100 a 150 famiglie. Ciò che si vuole esportare è principalmente il modello educativo”. Il villaggio è infatti un luogo che fa educazione, dall’asilo fino alla Scuola per la Pace, una realtà che lavora con giovani e adulti, promuovendo corsi di educazione al dialogo anche in alcune università. “È un processo lungo, la pace è un percorso che si costruisce faticosamente, con alti e bassi. Oggi purtroppo viviamo uno dei bassi peggiori, anche per la storia del villaggio”.

Un’immagine del pubblico della serata all’interno della biblioteca del Carrobiolo

Affrontare la guerra in un’ “oasi” di convivenza pacifica

La guerra iniziata con l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha provocato attualmente circa 1200 morti tra gli israeliani, mentre le vittime dell’offensiva israeliana sono state oltre 40mila, con 20mila feriti. “Tra le vittime civili ci sono anche i più fragili dei fragili, ossia i bambini malati, privati della possibilità di curarsi”, ricorda Donatella Di Paolo.

“Nella storia del villaggio questo è il momento più duro”, sottolinea Giulia Ceccutti. “Ci sono stati diversi lutti vissuti dagli ebrei del villaggio dopo il 7 ottobre. Poi la tragedia di Gaza ha colpito in prima persona alcune famiglie palestinesi residenti al villaggio. Una famiglia ha avuto più di 100 morti tra i propri familiari a Gaza”. La comunità però ha provato a reagire.  “Sono stati organizzati incontri di comunità per i residenti, inizialmente uninazionali, separati per nazionalità, poi svolti tutti insieme. Questi incontri sono stati moderati da alcuni facilitatori della Scuola per la Pace, che hanno aiutato le persone a tirare fuori il proprio vissuto, la propria rabbia, le proprie aspettative rispetto all’altro popolo”.

Da questi incontri sono nate anche iniziative concrete: diversi abitanti hanno partecipato alle manifestazioni in Israele per chiedere il cessate il fuoco permanente e la liberazione degli ostaggi. È iniziata a marzo anche l’esperienza della tenda del lutto. “Nella cultura ebraica sono previsti sette giorni di elaborazione del lutto, in quella musulmana tre giorni”, spiega Giulia Ceccutti. “Ci si è accorti che dall’inizio della guerra da parte dei membri palestinesi del villaggio non c’era più la condivisione del lutto: avevano paura, a causa delle limitazioni della libertà di espressione introdotte in Israele con l’inizio della guerra. Da qui è nata l’idea della tenda, pensata come uno spazio di condivisione del dolore e delle storie personali”.

Dove sta la “bolla”…

Rievocando la propria esperienza in Palestina, legata a un progetto di prevenzione del tumore al seno, Donatella Di Paolo ricorda che “solo camminando per Gerusalemme ci si sente in una polveriera” e chiede in che modo venga vissuto l’esempio del villaggio nel resto di Israele: “È una bolla?”

“A dispetto del nome il villaggio non è un’oasi, ma un luogo in cui il conflitto più grande entra eccome”, risponde Giulia Ceccutti. “Per riprendere le parole che ho sentito da un ragazzo ebreo del villaggio, è molto più ‘una bolla’ vivere solo con persone del proprio popolo, mandare i propri figli in una scuola in cui ci sono solo ebrei. E’ più innaturale quello che c’è al di fuori del villaggio. Le persone della comunità abitano insieme per scelta. In alcune città israeliane ci sono quartieri abitati da palestinesi, ma costoro sono completamente separati dagli altri cittadini ebrei. Frequentano scuole separate, con programmi differenti. Alle persone della comunità, invece, è sembrato innaturale mandare i propri figli in scuole separate, ebrei con ebrei, arabi con arabi: da qui hanno creato un sistema di istruzione comune nel villaggio”.

Fedi diverse, un unico luogo di culto

L’aspetto religioso nel villaggio è considerato una questione privata. Vi convivono persone di fede ebraica, musulmana, ma anche cristiana. Ci sono anche diversi non credenti. L’unico luogo di culto del villaggio la Casa del Silenzio, una cupola circolare con una finestra da cui entra la luce, dove ognuno è libero di pregare il proprio dio, o anche solo di entrare per riflettere.

“L’idea iniziale di Bruno Hussar”, racconta Giulia Ceccutti, “era quella di creare un luogo triangolare, con un angolo per ogni fede. Poi una persona del villaggio gli ha detto di non sapere dove collocarsi, essendo non credente. Da lì si è stracciato il progetto originario e ripensato un luogo a pianta circolare, che fosse una casa davvero per tutti. Questo luogo di culto fa parte del Centro Spirituale Pluralista, dove tutti gli abitanti sono invitati a prendere parte alle singole feste religiose. Obiettivo del centro, anche attraverso lo studio dei testi religiosi, è scoprire quali sono gli aspetti che, anche nella fede, possono unire questi popoli anziché dividerli”.

Il ruolo delle donne

Sollecitata da Donatella di Paolo sul tema del ciclo di incontri, dedicato alle donne, Giulia Ceccutti sottolinea il ruolo conquistato nel tempo dalle donne del villaggio. C’è stata una sindaca ebrea nella storia del villaggio e fino a qualche anno fa alla guida c’era una sindaca donna palestinese. “E’ davvero sorprendente, se consideriamo che in Israele i palestinesi sono una minoranza, il 20% della popolazione, mentre il villaggio ha avuto una sindaca donna e palestinese, che è stata tra l’altro uno dei motori del piano di espansione del villaggio”. Anche la scuola per la pace ha avuto una direttrice donna per tanti anni.

“C’è molta ‘sorellanza’, solidarietà tra le mamme del villaggio”, rimarca Giulia Ceccutti. “Alla chiusura della scuola per via della guerra tutte le mamme si sono organizzate per aiutarsi per la gestione dei bambini e le mamme della scuola primaria hanno organizzato una raccolta fondi attraverso il giornale Avvenire. Peraltro, i bambini che frequentano la scuola primaria del villaggio all’80 per cento vengono da fuori, poiché da tempo la scuola si è aperta all’esterno e anche famiglie che non abitano al villaggio hanno scelto di mandare i propri figli qui, in una scuola bilingue e binazionale”.

Imparare la pace

Numerose le domande e gli interventi del pubblico, anche da parte degli studenti presenti. Tra le questioni sollevate emerge come particolarmente interessante quella del metodo messo a punto dalla Scuola per la Pace, che propone laboratori anche nelle scuole italiane. Spiega Giulia Ceccutti: “Si lavora inizialmente su di sé, sulle proprie radici e i propri sogni, sulla propria identità, e ci si mette poi a confronto poi con gli altri: così spesso si finisce per scoprire che si è molto simili”. L’idea è che proprio la conoscenza di sé stessi, della propria identità sia alla base di un dialogo con l’altro che possa essere davvero alla pari.

Anche se l’esperienza del villaggio è ancora poco conosciuta dagli abitanti di Israele (è ben più nota all’estero, anche a livello mediatico), Giulia Ceccutti afferma che essa ha avuto comunque un impatto su scala ben più ampia. E ricorda due esempi a questo proposito: “il fatto che il modello educativo della scuola primaria sia stato ripreso da altre otto scuole in Israele, e il fatto che la scuola per la pace abbia formato a oggi 80mila persone con corsi o laboratori”. La pace quindi si impara, si può imparare. “Bruno Hussar ne era convinto, diceva che ci sono accademie per imparare a fare la guerra ma non scuole per imparare la pace”.

Ora una scuola c’è. E anche un luogo che dimostra che è possibile vivere in pace, insieme, in un’unica comunità, mantenendo le proprie diversità e la propria identità religiosa, linguistica, culturale.

Il segreto di Neve Shalom Wahat al Salam, forse, è che le persone che vi abitano oggi hanno scelto con convinzione di viverci, hanno voluto aprirsi alla relazione di “vicinato” con il diverso, hanno voluto costruire lì la propria casa e continuano a prendersene cura.

Il futuro dell’idea alla base di Neve Shalom Wahat al Salam dipenderà allora, in Israele e ovunque, soprattutto dalla diffusione del modello educativo figlio di quest’esperienza: una scuola che insegni la pace e non la guerra, che spinga all’incontro e non allo scontro.

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