Il “mio” Papa Emerito

di Claudio Pollastri

Il “mio” Papa Emerito. Due o tre cose che so del “mio” Papa Emerito per le quali recito subito il mea culpa. Niente di che. Solo appunti senza pretese, così tanto per ricordare il “collega” Joseph Ratzinger.

Eh sì, perché al di là della battuta apparentemente blasfema, gli indici dei collaboratori confermano che dal 1966 fino a pochi mesi prima che salisse al Soglio di Pietro col nome di Benedetto XVI ha collaborato con il mensile cattolico per il quale tutt’ora intervisto i personaggi.

In più di un’occasione mi aveva fatto brevissime ma incisive annotazioni su certe interviste in cui evidenziavo i tratti cristiani dei personaggi. E io mi limitavo a rispondergli “danke schön“ con la pronuncia di un bagnino di Cattolica.

L’avevo incontrato più d’una volta al Borgo quando era Prefetto per la Dottrina della Fede, il temuto Sant’Uffizio sempre pronto a dire “nein”.

Incontri propiziati dall’amicizia comune con Giuseppe De Carli, prematuramente scomparso nel 2010, responsabile di Rai Vaticano che alloggiava accanto all’appartamento di Ratzinger. Me l’aveva presentato una mattina di marzo e gli avevo detto “Guten Morgen“.

La risposta era accompagnata da un sorriso lieve che conteneva già un perdono lessicale. Affabile, pacato, forse timido, sguardo limpido e azzurro che arrivava diritto all’anima. In clergyman senza alcun segno cardinalizio se non un anello. Figura esile e delicata con un sorriso disarmante. Portava un basco nero e non aveva nulla del “rotweiller bavarese” che tutti temevano.

Mi aveva chiesto del lavoro e della famiglia con un’attenzione non formale. M’incoraggiava a trasformare le chiacchierate con i vip in apostolato. Aveva due gatti, dei quali uno rosso, che trattava con infinita dolcezza. Dall’appartamento del mio amico lo sentivo suonare il pianoforte, soprattutto Bach. In un incontro successivo gli avevo fatto i complimenti. Mi avevo ringraziato con un breve cenno del capo e la g che diventava c.

Saputo che era simpatizzante della Juventus gli avevo portato una copia della rivista dove avevo intervistato Platini. Con garbo teutonico mi aveva confidato, riempiendomi di imbarazzato orgoglio giornalistico, che l’aveva già letta. Parlava di Juventus anche con un suo grande amico Francesco Cossiga col quale aveva un appuntamento settimanale dove conversavano solo in tedesco. Una mattina avevo visto il “Presidente picconatore” portare in Vaticano, in una specie di rito laico, i Krapfen alla marmellata di cui Benedetto XVI era ghiotto anche se poi si limitava a spiluccarli.

Sempre attento ai particolari che riguardavano le persone che stimava, un’altra mattina l’avevo salutato mentre si recava nello studio di Andreotti con una scatola di cioccolatini alla menta che il “Divo Giulio” adorava.

E poi il 19 aprile 2005 Ratzinger era diventato il 265° Papa col nome di Benedetto XVI. L’avevo incontrato nel 2012 all’Arcivescovado di Milano in occasione del Family Day.

Gli avevo portato le bozze del libro a lui dedicato e gli avevo chiesto una foto. Mi aveva regalato un sorriso dei suoi che erano appena accennati sulle labbra e mi aveva chiesto con la erre aspra perché non gliel’avessi mai chiesta quand’era cardinale.

A sinistra Claudio Pollastri con Benedetto XVI. Racconta Pollastri: “gli avevo portato le bozze del libro a lui dedicato e gli avevo chiesto una foto.”

L’abito bianco del Papa aveva cambiato anche le mie sensazioni. Era sempre Ratzinger però adesso impersonava il Vicario di Cristo e stargli vicino provocava sensazioni da lasciare senza fiato.
L’avevo trovato molto affaticato. Non era un momento facile per la Chiesa e queste difficoltà trasparivano sul suo volto di cera, nella camminata stanca, nella voce a volte bassa ma lo sguardo chiaro è pieno di speranza sapeva infondere coraggio a tutti.

Lo stesso coraggio che mi è servito per svelare queste pagine intimiste del diario di incontri ravvicinati con Sua Santità. Aneddoti che non aggiungono nulla all’altissimo profilo di filosofo e teologo descritto dai vaticanisti di tutto il mondo.

Annotazioni di prima mano senza la pretesa di entrare nel dibattito se fosse conservatore o innovatore, su come tentasse di conciliare il confronto tra fede e ragione. Scampoli di quotidianità che riportano questo gigante minuto della fede nei parametri della normalità. Che era la sua cifra preferita: insegnare con umiltà. Come l’ultima frase sussurrata a fior di labbra in italiano prima di spirare nell’ultimo giorno dell’anno “Signore ti amo”. La sintesi di una vita al servizio di Dio. La sua. Emerita.

 

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