di Lello Gurrado
“Perché non vieni anche tu? Non ti piace la minestra?”
“Sì, sì, mi piace. Ma la mamma mi ha dato un panino. Io mangio quello”.
“Un panino? Un panino come?”
“Al formaggio”.
“Buono?”
“Buonissimo”.
Tutte le mattine, ormai da più di un a settimana, era la stessa storia. Quando suonava la campanella e scoccava l’ora della mensa, tutti sgusciavano festosi fuori dai banchi e lui, Cecco, restava immobile al suo posto. Gli altri sciamavano fuori dall’aula e Cecco, una volta rimasto solo, apriva lo zainetto, tirava fuori il panino con formaggio, lo scartava dalla pellicola in cui la madre l’aveva avvolto e lo mangiava a occhi bassi.
“Vieni almeno alla mensa con noi, anche se non mangi” gli disse una mattina Giancarlo, quello del banco davanti.
“Non mi lasciano entrare”.
“Perché no?”
“Perché mia madre non ha pagato la mensa. E io non posso entrare”.
“Ma…”
“Ma è così”, tagliava corto Cecco che non sapeva che alto dire.
Trascorsero alcuni giorni e s’accorse di non essere il solo ad essere escluso dalla mensa. Una mattina andò a mangiare il suo panino fuori dall’aula e incrociò altri cinque bambini della sua stessa età con il panino in mano. Si misero in circolo ma mangiarono tutti in silenzio, nessuno aveva voglia di far chiasso. C’era anche una bambina, Fabiola, la più avvilita di tutti.
La scena si ripeté tutti i giorni, per le prime due settimane di scuola, tra l’impotenza delle maestre, molte delle quali avrebbero voluto portare in mensa tutti quanti, e l’indifferenza dei dirigenti scolastici che o non vedevano o facevano finta di non vedere.
Finché un giorno a Giancarlo venne un’idea. Assunto misteriosamente il piglio del capopopolo, alla veneranda età di 9 anni, chiamò intorno a sé i compagni della terza elementare e disse: “Domani veniamo tutti a scuola con un panino e rimaniamo fuori dalla mensa a far compagnia a Cecco”.
“Che cosa?” chiese incredula Marianna.
Giancarlo ripeté il suo discorsetto parola per parola.
“Non so se mia madre vorrà” obiettò Aldo.
“Devi convincerla. Caso mai dillo anche a tuo padre. Vedrai che ti daranno il permesso”.
Il piccolo capopopolo ebbe ragione. Il giorno dopo i venticinque compagni di classe di Cecco arrivarono a scuola con venticinque panini e diedero vita alla protesta popolar-sindacale più bella, allegra e partecipata mai vista in una scuola, e non solo.
E non finì lì. L’esempio della III B poco alla volta venne colto da tutte le altre classi. Il secondo giorno arrivarono col panino quella della IV G, e furono in cinquanta ragazzini a restare fuori dalla mensa. Poi si aggiunsero quella della III A, della V C e via via, nel giro di meno settimana, la mensa rimase deserta e i corridoi e le scale intasate da paninari allegri, felici e orgogliosi della propria azione.
A questo punto bisogna dire che i dirigenti scolastici reagirono con grande consapevolezza. Dapprima spiazzati dall’inattesa e obiettivamente inimmaginabile protesta dei mini-contestatori, presero presto coscienza della situazione. Si riunirono in un consiglio di classe straordinario e convennero all’unanimità di aprire la mensa a tutti, ricchi e poveri, paganti e non paganti. Perché “se la scuola deve essere maestra di vita”, sentenziò il Direttore, “la prima cosa da insegnare deve essere il concetto di eguaglianza”.
Non ci furono applausi né ovazioni, ma certo è che il giorno dopo Cecco andò per la prima volta in mensa affiancato a Giancarlo. Aveva una sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Mangiò di gusto una pessima minestra che gli parve squisita.