di Francesca Radaelli
Merry Christmas. Sono queste le parole del primo sms della storia, inviato il 3 dicembre 1992 da Neil Papworth, giovane ingegnere britannico della Sema Group Telecoms a Richard Jarvis, dirigente di Vodafone. Un po’ in anticipo sul 25 dicembre, a dir la verità, e forse con qualche perplessità sul fatto che quegli auguri di Natale potessero arrivare effettivamente a destinazione.
Quel primo sms non partì da un telefono – i portatili non avevano ancora una tastiera – ma da un computer, arrivando su cellulare attraverso la rete GSM. In origine Vodafone pensava di utilizzare lo Short Message Service come un sistema di comunicazione interna tra capi e segretarie, ma agli sms era riservato ben altro destino. Ben presto le aziende di telecomunicazioni iniziarono a proporre servizi di messaggistica, che a poco a poco presero piede tra il pubblico, fino a che gli sms entrarono a tutti gli effetti nella vita quotidiana delle persone.
Determinando una vera rivoluzione nel modo di comunicare. E dando il via alle dichiarazioni d’amore fatte a suon di tvb, alle espressioni del viso trasfigurate nella punteggiatura (i celebri emoticon, di cui non possiamo più fare a meno), ai vari qlc, qnd, xkè. E all’erosione delle vocali, diventate ormai superflue, se è vero che una parola scritta può essere riconosciuta dalle sue sole consonanti, come nella migliore tradizione degli alfabeti semitici.
Cosa determinò il successo di una trasformazione linguistica tanto radicale eppure tanto veloce nel diffondersi e nell’essere sdoganata? Probabilmente il motivo principe fu l’imperativo della brevità. Tredici anni prima di Twitter, i primi sms avevano un limite di 160 caratteri, oltre non si poteva andare. E dato che essere brevi è tra le cose più difficili di questo mondo, il gioco è stato quello di ridurre all’osso le parole, in modo da esprimere il maggior numero di concetti con il minor numero di segni.
Dopotutto un “ti voglio bene” non arriva a 160 caratteri, ma forse non è abbastanza sintetico. O forse non era sufficiente a riempire lo spazio a disposizione sul piccolo schermo dei primi telefonini. Fatto sta che lo si trasformò in un acrostico, molto più facile da incastrare tra un xkè e un xò. Perdendo forse gran parte della sua pienezza e della sua potenza espressiva.
In seguito diventerà possibile anche scrivere messaggi più lunghi, superare la soglia dei 160 caratteri, spendendo magari 20 centesimi in più, usare il T9 (inventato nel 1995), ma nessuno vorrà rinunciare alle abbreviazioni. Il motivo? Fare più in fretta, risparmiare tempo, cercare di dire tutto in poco spazio, non dicendo niente per davvero.
Fatto sta che oggi la sfida della brevità si rinnova. Gli sms non sono più gli unici protagonisti della comunicazione scritta via telefono (o meglio smartphone), ci sono i social, le chat, whatsapp. Ma il linguaggio nato grazie ai primi “messaggini” – con tutte le sue implicazioni – è ancora indiscutibilmente vivo e continua a far parte delle nostre ‘conversazioni’.
Francesca Radaelli