Il rientro al lavoro dopo la malattia

donatella-di-paoloQualche giorno fa, Donatella Di Paolo, giornalista e conduttrice del Tg4 da più di vent’anni,  ha esposto lo scritto che vedete qui sotto a una platea di giornalisti durante un corso di aggiornamento professionale. il titolo era : “L’ambiente di lavoro e i problemi personali. Il rientro dopo la malattia e l’accoglienza del gruppo.” Un corso dove avrebbe dovuto parlare anche una psicologa che lavora in una delle nostre carceri,  assente quel giorno perché impedita  da impegni improvvisi.
Specifichiamo questo  perché, lo leggerete, sia la malattia che alcuni posti di lavoro, sono vere e proprie “gabbie” dove spesso ci sentiamo come reclusi, penalizzati dalla vita.
Donatella è una bellissima signora, con tre figli, un marito e un lavoro impegnativo come tanti altri. A lei, come  molte altre donne, è accaduto di ammalarsi seriamente di un brutto tumore, contro il quale ha combattuto con tutte le sue forze, vincendo la battaglia, recuperando la salute. La lotta, come potete immaginare, continua.
Ma quell’esperienza ha modificato il suo mondo , il suo modo di essere e di vivere, soprattutto rispetto al lavoro. Donatella ha condiviso quella sua esperienza con noi tutti. Ecco il suo intervento.

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L’ambiente di lavoro e i problemi personali. il rientro dopo la malattia  e l’accoglienza da parte del gruppo. Ex di qualcosa.

So che oggi parlerò io e  parlerà anche la dottoressa Rossi  che ci racconterà  di ex carcerati e della loro accoglienza nella  nuova vita.  Dell’avere dunque un’ altra possibilità.

Questa cosa, cioè avere un’altra possibilità,  li  accomuna  a noi che abbiamo vissuto una malattia lunga e devastante, come quella del cancro. Ma chi è stato malato  non sarà mai un ex. Perché ciò che non guarisce mai  è la consapevolezza  di avere  avuto la malattia, dunque la consapevolezza  della morte in agguato, sempre.
Perché se la sofferenza passa non passa mai l’avere sofferto. E dopo la lotta a testa bassa arriva il momento della risacca che spesso coincide con il rientro al lavoro. Momento in cui  io mi sono detta: “ricordatelo bene, non  si possono aggiungere giorni  alla vita, si può aggiungere vita ai giorni”.

Ma  mi sono bastati pochi giorni  per realizzare  che  tornare al lavoro mi faceva  sembrare di togliere vita ai  miei  giorni.
Per mille motivi, forse perché nel mio caso  lavoro troppo, non perché io lo voglia ovviamente,  ma per motivi contingenti,  e faccio  tanta, troppa fatica. E lavorando non faccio tutte quelle cose che devo fare, che voglio fare  senza aspettare a lungo  perché dopo il cancro  capisci che a volte il può essere poco. Ecco partirei da qui per parlare del rientro al lavoro.

Quanti di noi  si ripetono carpe diem o qualcosa del genere? Ma il vero significato si apprende solo dopo che  sei passato nel tunnel, dopo che la goccia nera di inchiostro tende ad inquinare tutta  l’acqua in cui annaspi. E pochi, pochissimi lo capiscono.

Certo lo comprendono   i   colleghi – amici, quelli che ti hanno vissuta  quando stavi lottando per la vita, quando non sapevi se saresti sopravvissuta, quando  sei diventata calva e spettrale. Ma gli altri? Gli altri, no.

Allora   da una parte  esiste,  e  lo rivendico,  il potere terapeutico del lavoro, quello che ti fa alzare la mattina, ti fa vestire,  truccare, sorridere e salutare   quando arrivi alla scrivania.
Quello che ti fa pensare solo al lavoro perché  c’è la scaletta da fare, il tg da condurre, insomma c’è quella realtà che noi giornalisti ci siamo scelti; entrare nelle notizie e dalle notizie farci assorbire.

C’è il lavoro di redazione, i problemi sindacali, i rapporti con il direttore, l’azienda.

E allora arrivi a sera e ti rendi conto che al tuo cancro, alle tue paure che ormai viaggiano con te,  oggi proprio non ci hai pensato. Oggi eri una persona normale.

Perché questa malattia  per mesi e mesi è stato  l’unico centro  dei miei pensieri  e come tale ha ribaltato  priorità e prospettive e  ha filtrato   la realtà attraverso  una lente modificata. Ma quel giorno al lavoro sembrava  che le lenti fossero solo trasparenti, (poi magari la sera  a letto ti  dici ” stai attenta non puoi permettertelo”). Ti hanno trattato da persona normale   (ma tu non sei normale).

Bello, si. E allora  capisci che non  hai fatto caso a quei doloretti che sentivi e che magari significano che… no, non c’era tempo,  la mia testa era altrove.

Istituto Europeo di Oncologia, Milano
Istituto Europeo di Oncologia, Milano

E’ passato quasi un anno da quando sono tornata. In un anno il mio direttore non mi ha mai chiesto come stavo. Io sono li, e sono un vice caporedattore, punto.

Allo stesso modo dei medici   per cui io ero un corpo da guarire, per il mondo del lavoro  tu sei un corpo che deve produrre.
Dell’inafferrabile altro che può nascondersi dietro i fatti, siano questi sanitari, siano questi lavorativi, redazionali,  non si tiene conto.

In un anno  solo una volta  con una collega  ho avuto un attimo di cedimento in un momento di tensione. Ho detto:  “mi spiace avere pianto, (peraltro tre lacrime…)    ma mi è rimasta addosso un pò di fragilità”.

Risposta. “Ognuno ha le sue”. E la persona in questione è una brava persona. Però è una persona  che  non ha provato  quello  che abbiamo provato noi.
E allora magari arrivi pure a capirla quando nell’altra vita, quella ante cancro,  l’avresti mandata a quel paese. Perché uno dei valori aggiunti della malattia   è quello di regalarti più   capacità di comprendere.

Certo è  che, tornata a  casa, mi ripetevo tipo mantra: “il tempo  non è mai nelle nostre mani, il modo di vivere si”. Le  piccole  rotture della quotidianità  possono produrre grandi scosse.

Nei lunghi mesi a letto ho cercato di leggere molto, ho iniziato e mai terminato “Un altro giro di giostra” di Tiziano Terzani.

Lui scriveva: “Questa malattia mi è venuta perché capissi qualcosa. Arrivi a pensare  che quel cancro inconsciamente l’avevo voluto io. Da anni avevo cercato di uscire dalla routine,  per rallentare le mie giornate, per  scoprire un altro modo di guardare le cose, di avere un’ altra vita. Ora tutto quadrava.”

E’ vero. Io per mesi avevo sperato di rompermi un braccio, una gamba per prendere finalmente respiro, per fermarmi. Invece mi era venuto il cancro. E adesso tutto è ripreso come prima, anzi peggio.

Il punto comunque è uno solo. Al lavoro devi tutelarti da sola, nessuno lo fa per te. Non per cattiveria ma perché  il lavoro può essere un meccanismo infernale.
Nessuno sa cosa vuole dire  prendere pillole su pillole, nessuno sa che le terapie ti possono salvare ma ti sfiancano, nessuno sa che a volte arrivi al lavoro e sei a pezzi.

Vi sento già…. stai a casa…. ma il vecchio caro senso di colpa  è sempre in agguato.

Esempio. Ferie, tre persone in redazione, tu sei qui dalle otto del mattino e sono le sei e mezza di sera, il tuo orario finiva  quattro ore fa. Ma puoi andartene via lasciando gli altri  nel pantano? a mezz’ora dall’edizione del tg?

Due giorni fa un collega mi ha detto: “Te ne sei andata , te ne sei sbattuta dei colleghi”, ossia di lui. questo accadeva dopo 11 ore  li dentro. A questo collega è forse balenato per un attimo  che ero stanchissima, questo collega mi ha mai chiesto  ti senti bene?

Allora a volte sapete cosa faccio?  Vado allo IEO non solo a fare dei controlli, così per fare un giro.
Vado nel reparto di chemioterapia, parola che fino a tre anni fa non riuscivo neppure a pronunciare, e vado a trovare i miei infermieri, a vedere le persone che sdraiate sulle poltroncine  si fanno iniettare la rossa, la gialla, …la vita. Guardo le donne che con orgoglio  riescono a mettersi la parrucca e a truccarsi e a sorridere o a piangere.  Ripenso  che alla fine la vita è questo, la lotta per sopravvivere.

La malattia  cambia il modo  di vivere, ci induce a ricercarne un senso, a guardare le cose essenziali della vita, a dimenticare quelle inessenziali,   a parlarne si,  ma con persone capaci di una umana e profonda partecipazione al dolore. La malattia sottrae certezze  ma scoperchia forze inedite.

E non è vero che  se tu rientri al lavoro  è tutto passato. Anche se gli altri ti dicono sei normale.   Normale, questo è giusto? Lo chiedo a voi.

Chiuderò con una frase  che ho sempre tenuto a mente in   questi  tempi.
“La speranza ha due figli bellissimi. Lo sdegno e il coraggio”. E il coraggio è anche  essere consapevoli che nella vita  puoi scegliere di essere  triste e sentirti triste o di esser felice  ed esserlo davvero, sta a te decidere. Ogni  giorno.

 Donatella Di Paolo

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