di Francesca Radaelli
“Prendersi cura dell’umano” è il titolo scelto da Caritas Monza e San Vincenzo per la Settimana della Carità 2024, iniziata lunedì 19 febbraio. E, in linea con la riflessione sul “prendersi cura”, il Buon Samaritano è stato la figura evangelica posta al centro della veglia di preghiera dello scorso martedì 20 febbraio, che ha visto l’intervento dell’arcivescovo Mario Delpini presso la chiesa di San Gerardo.
Una scelta non casuale, quella di organizzare la veglia presso la parrocchia di San Gerardo al Corpo, nel contesto dell’Anno Santo Gerardiano. Un anno nel corso del quale – come ha ricordato don Massimo Gaio – l’urna del santo patrono della città è uscita dalla chiesa che la custodisce, facendo sosta anche all’ospedale cittadino, ma durante il quale c’è anche stato il confronto con la scienza, che per la prima volta nella storia moderna ha esaminato il corpo.
San Gerardo: un samaritano in viaggio
“Abbiamo imparato”, ha affermato don Massimo all’inizio della preghiera, “che non dobbiamo chiederci chi sia il nostro prossimo. È il cristiano il primo a farsi prossimo, come ha fatto san Gerardo”.
Un santo la cui storia viene ricordata durante la preghiera, come la “storia di un samaritano in viaggio”. Nato a Monza nel XII secolo, veniva da una famiglia benestante, forse legata all’importante attività della tintura dei panni di lana prodotti nel borgo da cui probabilmente il cognome “dei Tintori”. La casa paterna di Gerardo sorgeva sulla riva sinistra del Lambro, presso l’attuale ponte detto “di San Gerardino”. Dopo la morte del padre, desideroso di dedicare la propria vita ai poveri, con i beni ereditati, fondò un ospedale ed iniziò a dare personalmente assistenza ai poveri, ai malati, ai pellegrini alle donne sole ed ai bambini abbandonati. La sede dell’ospedale pare fosse la casa stessa di Gerardo.
Nel 1174 Gerardo stipulò con il Comune di Monza e con il Capitolo del Duomo una convenzione nella quale si definiva lo status giuridico e amministrativo dell’ospedale, in modo da garantirne il funzionamento anche dopo la sua morte. Il servizio nell’ospedale era svolto da conversi: laici che vivevano in comune come i frati, senza però prendere i voti religiosi. Gerardo era uno di loro e svolgeva anche l’incarico di “ministro”, cioè direttore dell’ospedale. Come risulta anche da alcuni documenti degli anni successivi, egli mantenne questo incarico fino alla morte, avvenuta il 6 giugno 1207.
Alla lettura del brano del vangelo che riporta la parabola del Samaritano sono seguite, introdotte da don Augusto Panzeri di Caritas, le testimonianze di operatori impegnati attivamente nel mondo del sociale e nel prendersi cura della sofferenza.
La cura nell’hospice, tra la vita e la morte
Il primo è il dottor Carlo Cacioppo, oncologo dell’hospice della Madonna delle Grazie di Monza: “Ho visto passare dall’hospice 5mila persone circa, che qui hanno sofferto e hanno ricevuto le cure di un’equipe che si è spesa per loro, formata da medici, operatori sanitari, volontari”, ha raccontato il medico. “Dopo 20 anni di lavoro in ospedale in cui ho curato le malattie, in hospice ho imparato a curare le persone. Persone fatte non solo di corpi sofferenti, ma anche di emozioni, di anima, famiglie, amici, relazioni, desideri, passioni. Oltre alle medicine siamo stati capaci di offrire anche noi stessi. E credo che contro la solitudine di queste persone la solidarietà e la vicinanza siano medicine”.
Una cura in grado di trasformare anche chi la pratica: “Io stesso ho imparato a rallentare il passo, a fermarmi davanti a queste persone. E alla conclusione di questa bella e faticosa esperienza posso dire di aver ricevuto più di quanto sono stato capace di dare. Anche l’ultima fase della vita ha lo stesso diritto di dignità, compagnia, compassione delle altre. Spesso mi chiedono cosa si prova a stare vicino materialmente a una persona che muore, e devo dire che è un’esperienza che posso paragonare solo al momento della nascita dei miei figli. Nascita e morte sono momenti unici e misteriosi”.
Al termine della testimonianza non manca un cenno pieno di sgomento sulla scarsa dignità attribuita alla vita umana nei conflitti in corso nel mondo. “Se penso che all’hospice abbiamo preso in carico le persone individualmente, attribuendo a ciascuna la propria importanza e umanità, vedere che intorno ci sono uomini che con estrema facilità uccidono altri uomini mi lascia senza parole e mi angoscia”.
La cura dei malati psichiatrici e il ruolo della comunità
La seconda testimonianza è quella di Alessandro Colombo, responsabile dell’area salute mentale di Consorzio Farsi Prossimo, che parla della sua esperienza con i malati psichiatrici.
“Dopo l’anno di servizio civile in Caritas, sono stato chiamato da don Virginio Colmegna per gestire un reparto dell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano”, racconta. E aggiunge: “Chiamato probabilmente più per la mia stazza fisica che per le mie qualità, ma come il samaritano anch’io passavo di lì, sulla strada mi si è presentato il Paolo Pini e ho detto sì”.
Nonostante fosse stata approvata la legge Basaglia, quel luogo era rimasto un manicomio, in cui i malati più gravi vivevano in condizioni di “lager”: “Il manicomio aveva un unico linguaggio, quello dell’aggressività. Mi ritrovavo catapultato in una situazione in cui bisognava inventarsi una vita nuova. L’errore più grande che ho fatto è stato di considerarmi da solo ad affrontare un’impresa che era impossibile, pensare di essere il capo, senza considerare che il tesoro più prezioso erano questi 15 fratelli di cui mi prendevo cura, che nella loro fragilità riuscivano a spiegarmi la bellezza della vita.”
Alessandro Colombo spiega che manicomi sono stati ricettacolo di ogni forma di ignoranza e paura che società produceva: omosessuali, tossicodipendenti, primi malati di aids. “In un certo senso sono ancora aperti: la cura di queste persone si caratterizza per una dimenticanza da parte nostra. Grazie a Caritas e al consorzio Farsi Prossimo, le 15 persone di cui ero stato chiamato a occuparmi hanno trovato una casa in autonomia solidale. Ho capito che per prendersi cura di queste persone servivano sì dei bravi medici, ma solo loro non bastavano. Perché servivano anche bravi panettieri, bravi parrucchieri, bravi sagrestani, che non trattassero male queste persone ma le accettassero”.
La cura dei più fragili dipende da tutti. “C’è bisogno di una cittadinanza terapeutica, come sosteneva Basaglia”. Ma la cura ha anche il potere di cambiare le persone: “Non so se il samaritano abbia fatto quella strada per sbaglio, ma credo che quel giorno il samaritano abbia trovato un nuovo senso alla sua vita incontrando quella persona sulla sua strada, come è accaduto a me dopo aver incontrato quelle persone sulla mia strada”.
Il samaritano a Gerusalemme
Cosa farà il samaritano quando arriverà a Gerusalemme dopo essersi preso cura del viandante? Alla domanda di don Augusto, l’Arcivescovo Mario Delpini risponde con una suggestione, immaginando l’incontro in città tra il samaritano e i due personaggi della parabola che non hanno prestato alcun soccorso: il sacerdote e il levita.
“Il Samaritano arriverà a Gerusalemme, ma non ci sono buoni rapporti tra samaritani e giudei. Si presenterà come uno straniero, sarà guardato come una minaccia, circondato dal sospetto”. Uno straniero che Gesù ha reso protagonista nella parabola che spiega il comandamento dell’amore per il prossimo. “Il samaritano dice: ‘Spiegatemi voi chi è questo Signore che amate con tutta la vostra vita e che comanda di amare il prossimo come se stessi’. Entra a Gerusalemme con le sue domande”. Domande importantissime, poste da colui che ha provato compassione. E che ora si chiede quale sia il senso della cura, della carità, dell’amore.
Prosegue il racconto dell’arcivescovo: “Si fa avanti un sacerdote: ‘Sono uno di quelli rimproverati dal maestro per non avere compassione. Se cerchi il nostro Dio sappi che non ama sacrifici e penitenze ma opere di giustizia e carità. Noi devoti, sacerdoti lo abbiamo dimenticato, io sono passato oltre. Se cerchi Dio preparati a ricevere una ferita profonda nel cuore, una nostalgia, un abbaglio di stupore’. Si fa avanti anche il levita: ‘Pensavamo di sapere qualcosa dei nostri doveri religiosi, invece siamo stati rimproverati perché siamo passati oltre, per la paura o la distrazione. Ma Dio si è servito del tuo gesto, della tua compassione, per cambiare il nostro modo di vedere’. Il comandamento rivelato da Gesù è amare come lui ha amato”.
Di questo amore ha bisogno la città. “Un amore che non si accontenta di dare sollievo alle persone ferite, un amore che insegna ad amare, che rende capaci di amare. Non è solo la benevolenza del sano che cura il malato, la buona educazione del cittadino che accoglie lo straniero. Ma un amore che fa sì che ciascuno dia e ciascuno riceva, tutti siamo ricchi e possiamo dare, tutti siamo poveri e possiamo ricevere. Amore riabilita e rende capaci di amare”.
A Gerusalemme arrivano tutti e tre i pellegrini. “Il samaritano è arrivato a Gerusalemme come un uomo alla ricerca di Dio. Il sacerdote è arrivato a Gerusalemme come uno che è scappato dall’incontro con il povero. Il levita è arrivato come uno che ha cercato di non vedere il povero mezzo morto e Dio gli ha cambiato il cuore”.
Il samaritano a Gerusalemme, spiega l’arcivescovo, può rappresentare “la compassione che sa dare un nome al suo principio e lo chiama Padre. Non è solo un sentimento suscitato dal povero che soffre, ma un luogo in cui si può conoscere Dio e arrivare a lui. Non dobbiamo accontentarci di fare cose buone e generose, abbiamo bisogno di Dio”. E la preghiera conclusiva rivolta da Mario Delpini a san Gerardo è proprio questa: “Aiutarci a praticare una carità che diventi santità. Perché l’opera buona sia opera di Dio”.
Ecco il video della Veglia di preghiera con Mario Delpini