“Ti stenderò un tappeto rosso”. Così diciamo ai nostri migliori ospiti quando vogliamo manifestare rispetto e magnificare la loro presenza. Già il tappeto, un oggetto che adorna appartamenti, protegge dal freddo e manifesta, per i più ricchi, ampia disponibilità economica.
Ma in tempi meno secolarizzati dei nostri era un ” Il vello sacro” come spiega il bellissimo libro scritto da Beba Marsano, critica e storica dell’arte ( Tabibnia Editore). Ci sono voluti più di due anni di ricerche per raccontare la storia e i significati reconditi dell’arte tessile, da est a ovest del mondo, dai tempi di Eschilo a quelli degli artisti del XIX secolo.
“In Turcomannia si fanno li sovrani i tappeti e dei più begli”.
Cita Marco Polo e il Milione la nostra autrice per iniziare il racconto, parte dal più grande viaggiatore e primo importatore di tappeti per narrare come la cultura figurativa cristiana si sia appropriata di questi particolari tessuti, provenienti da altri mondi e religioni. Prima fra tutte quella ebraica.
“E’ questa la porta del Signore e da essa entrano i giusti” si legge sul tappeto ebraico mamelucco conservato a Padova e utilizzato anche oggi come “parokhet”, tenda sotto la quale sono riposti i titoli della Torah e tutti gli altri libri dell’Antico Testamento.

Drappi che definiscono lo spazio rendendolo sacro, separandolo da quello riservato agli uomini. E ancora. Pensate all’uso del tappeto nella religione islamica : delimita lo spazio del fedele. Separato dal suolo,crea un luogo pulito sul quale ci si inginocchia e si prega.
In Tibet, e un tempo anche in Cina, era diffuso tra i buddisti per sedersi e meditare, per proiettarsi verso una dimensione più alta.

Nel XIII secolo, ai tempi appunto di Marco Polo, “crociati, pellegrini e mercanti di ritorno dalla Terra Santa e dalla Via delle Seta importano tappeti orientali di conturbante bellezza” scrive Beba Marsano. E quei tessuti diventano il simbolo di ricchezza e maestosità, degni di simbolizzare e rimandare al divino. Ed è così che entrano nel corredo iconografico dei pittori del tempo.
Perché il tappeto è “un espediente visivo perfetto”,- sono parole dell’autrice – per nobilitare un spazio, conferire regalità, un luogo sacro, appunto. Ecco allora Fra Bartolomeo, nel 1252, nella contraffacciata della SS. Annunziata a Firenze dipinge il primo tappeto nella storia dell’arte europea: una piccola stuoia ai piedi della Vergine. L’Arcangelo Gabriele si tiene ai bordi, non supera quel limite. Per tre secoli, questo modello è presente nelle Annunciazioni fiorentine. Tra il 1420 e il 1425, Gentile da Fabriano ne realizza due versioni, una delle quali è alla Pinacoteca Vaticana. Così’ come vent’anni dopo farà Fra Carnevale nel 1448.

Da Tiziano a Caravaggio , passando per Rembrandt e Guercino, nella Cena in Emmaus tutti stendono un tappeto da tavola, coperto a sua volta da una tovaglia candida. In Caravaggio, racconta Beba Marsano, si tratta di un Ushak anatolico. E anche qui il tappeto diventa una sorta di altare sul quale celebrare il rito del pane che diventa corpo di Cristo.
Tintoretto nel “Ritrovamento del corpo di San Marco”, 1566, stende il santo su un drappo anatolico a frange rosse: “Il tappeto che lo circoscrive visualizza l’ossequio per il suo essere stato uomo e per essere, ora , santo” afferma Marsano.

Pochi, frammentari esempi tratti dal poderoso volume “Il vello dipinto”. Dieci capitoli per 370 pagine con un approfondimento sulle tipologie dei tappeti. Dal 6 aprile al 2 luglio, in via Brera 3 a Milano, nella galleria di Moshe Tabibnia verranno esposti 25 tappeti antichi riprodotti in altrettanti dipinti provenienti tra l’altro dalla Pinacoteca di Brera e dal Museo Poldi Pezzoli. “Suolo sacro, Tappeti in pittura dal XV al XIX secolo” è il titolo della rassegna.
Daniela Annaro