di Carlo Rolle
Un grande successo editoriale
Buongiorno, amici lettori, oggi vorrei parlarvi di uno dei libri più famosi della collana “Biblioteca” di Adelphi che, appena pubblicato nel nostro paese, ebbe immediatamente un grande e meritato successo. “In Patagonia” di Bruce Chatwin (1940-1989) uscì in questa collana nel 1977, e Chatwin divenne allora più noto nel nostro paese che in patria, come era successo poco prima con Joseph Roth.
Quando questo libro mi fu regalato nell’82 lo guardai con una certa diffidenza, perché avevo gusti difficili e non avevo mai sentito nominare l’autore. Ma il libro mi piacque subito e lo lessi d’un fiato. L’ho riletto altre due volte a distanza di anni e ogni volta con grande piacere. È proprio uno splendido libro.
Appartiene ad un genere letterario di cui non vi ho ancora parlato, un genere che espresse – specialmente negli ultimi due secoli – non pochi capolavori: i libri di viaggio. Solo pochi di questi libri furono pubblicati dalla collana “Biblioteca”: forse riuscirò a parlarvene in futuro. È un genere che gli autori inglesi dominarono: fino alla Seconda Guerra Mondiale la Gran Bretagna controllava un impero di oltre 40 milioni di km2, nel quale i viaggiatori inglesi si muovevano spesso senza neanche lo sforzo di cambiar lingua.
Una terra remota
Il libro di Chatwin è un volume di media grandezza: 259 pagine divise in 97 capitoli senza titolo, secondo una concezione molto moderna. I capitoli sono di lunghezza variabile a seconda delle vicende che trattano. Questa brevità, pur commisurata alla materia del racconto, contribuisce a rendere il libro scorrevole, anche se il merito di questa grande fluidità è soprattutto della prosa avvincente, carica di curiosità e sottilmente ironica di Chatwin. Alcune foto scattate dallo stesso Chatwin intervallano le pagine e aiutano a visualizzare i luoghi e le persone che il libro presenta.
“In Patagonia” non è preceduto da un’introduzione, né questa sarebbe stata utile. È il capitolo iniziale a fungere da introduzione rivelandoci il precoce interesse del bambino Bruce Chatwin per quella regione remota: sua nonna conservava quello si diceva essere un pezzetto di un dinosauro lasciatole da un cugino marinaio, il quale, dopo esser scampato ad un naufragio nello stretto di Magellano, si era stabilito in Patagonia.
Il tema della fauna preistorica del Sudamerica riaffiora continuamente nel libro. Strane e goffe creature sopravvissero in quell’angolo isolato di mondo, quando i loro simili erano già scomparsi altrove, eliminati da specie più efficienti. Questi bizzarri esemplari sono quasi una metafora per i profughi umani rifugiatisi in Patagonia, per finire lì i loro giorni, al riparo dalle traversie che avevano vissuto.
All’inizio del libro si trova una cartina della Patagonia, in cui vi consiglio di inserire subito un bel segnalibro: ci tornerete continuamente, per meglio seguire il viaggio di Chatwin, che si svolge per lo più a piedi, da Nord a Sud, verso il vertice del triangolo acuto che è il Sud America.
Inizia il viaggio
La Patagonia inizia quando si passa il Rio Negro. Da lì in poi ci si addentra in un paesaggio sempre più vuoto, sempre più essenziale e astratto, fino ad arrivare alla “fine del mondo”, cioè fino al punto oltre il quale non ci sono che acque tempestose e gelide. Oltre quelle c’è solo l’Antartide, come un pianeta ostile, dove la vita umana è impossibile.
Gli strani incontri di Chatwin cominciano presto: al capitolo 7 l’autore rievoca il suo incontro a Parigi con Sua Altezza Reale il Principe Filippo di Araucania e Patagonia. Già, perché nel 1859 un originale si era messo in mente di fondare una monarchia che controllasse mezzo Sudamerica e rivendicarne la corona, mettendosi a capo degli indigeni argentini e cileni, contro le repubbliche dell’Argentina e del Cile. Ma la “Nouvelle France”, che avrebbe dovuto compensare la Francia della perdita della Louisiana e del Canada, non riuscì mai veramente a decollare; così il Regno di Araucania e Patagonia continuò a passare di mano soltanto sulla carta, almeno fino all’interlocutore di Chatwin.
Al capitolo 9 si comincia a parlare dei coloni gallesi che, sempre nel 1859, erano sbarcati in Patagonia dopo l’esaurimento delle loro miniere di carbone e il rifiuto del governo di insegnare il gallese nelle loro scuole. I loro capi avevano cercato una terra lontana dagli inglesi ed erano finiti in Patagonia. Il governo argentino concesse loro dei terreni lungo il Rio Chubut. Chatwin ne incontra i discendenti in luoghi desolati. Un ragazzino ha uno straordinario talento musicale, ma non è facile diventare un grande pianista in una sorta di deserto flagellato dal vento.
Plesiosauri e leggendari fuorilegge
Al capitolo 18 si inizia a parlar di Martin Sheffield, un avventuriero texano che nel 1922 cominciò a dichiarare di aver avvistato un plesiosauro vivo in un lago della Patagonia. Si cominciarono a raccogliere soldi per la cattura, la stampa dava per certo l’avvistamento, il plesiosauro dette il suo nome ad un tango e ad una marca di sigarette, ma sfortunatamente non venne mai trovato.
Al capitolo 20 inizia invece la vicenda di Butch Cassidy, il famoso fuorilegge e rapinatore che fondò il “Wild Bunch” e terrorizzò gli Stati Uniti. Non tutti ricordano che Butch Cassidy, Sundance Kid e la moglie di questi, Etta Place, per salvarsi dai detectives dell’agenzia Pinkerton, vennero a vivere a Cholila in Patagonia, nel primo decennio del XX secolo. Chi ha visto il famoso film di Sam Peckinpah, “Il Mucchio Selvaggio”, può anche dimenticarsi i mitici tre quarti d’ora di sparatoria finale, dove si diceva che avessero trovato la morte i fuorilegge assediati in un villaggio boliviano. Pare invece che quella della loro uccisione in Bolivia, nel 1909, fosse una montatura. In ogni caso Chatwin propone altri avventurosi esiti per Butch Cassidy e Sundance Kid.
Misteriosi ominidi e gliptodonti
Al capitolo 36, un vecchio ed erudito salesiano autodidatta, risiedente nella cittadina di Comodoro Rivadavia, parla a Chatwin di un unicorno che sarebbe vissuto in Patagonia fino al sesto o al quinto millennio a. C. e di un proto-ominide patagonico diretto antenato dell’uomo, lo Yoshil. Lo Yoshil, creatura dai capelli stopposi di colore verde-giallastro, alto circa ottanta centimetri, esiste da prima dell’australopiteco africano, e dunque l’uomo si è sviluppato in Sudamerica, non in Africa, spiega Padre Palacios a Chatwin. Inoltre, aggiunge con noncuranza, lo Yoshil è stato visto l’ultima volta nel 1928. Seguono molti particolari sullo Yoshil.
Tutto il libro è punteggiato di racconti su creature antichissime, da lungo tempo scomparse altrove, ma che allignerebbero forse ancora in Patagonia, terra in cui tante cose vanno a morire, dai progetti velleitari degli uomini, a quelli (veri o presunti) della Natura stessa: plesiosauri, milodonti, gliptodonti, unicorni, ominidi. Chatwin stesso si reca sulle montagne a caccia di fossili e ne trova alcuni di gliptodonte affascinante mammifero corazzato, analogo più che simile ad un armadillo gigante.
Navigatori avventurieri e viaggi maledetti
Vicino alla città costiera di Puerto Deseado, a mezza altezza della Patagonia, Chatwin visita una colonia di pinguini, che giungono lì a nidificare durante la stagione calda. I pinguini sono animali monogami fino alla morte, ogni anno maschi e femmine accudiscono insieme il loro nido.
La città di Puerto Deseado è legata alla storia di spregiudicati navigatori inglesi del XVI secolo, dei quali Chatwin narra le dimenticate vicissitudini nel capitolo 45. Gente che saccheggiava le coste brasiliane, che scoprì le Falkland e che in Patagonia subì un attacco degli indigeni Tehuelche.
Durante una delle loro scorrerie in Brasile, i marinai di John Davis caddero in una trappola di portoghesi e indigeni; riusciti a prendere il mare dovettero fronteggiare una tremenda infestazione di vermi nati dal carico di pinguini che avevano massacrato alle Falkland, poi il flagello dello scorbuto. La nave andava praticamente alla deriva nell’oceano, con l’equipaggio in preda a grandi sofferenze. Ma Davis si salvò e tornò in Inghilterra a scrivere le sue peripezie, finché la smania di esplorare lo riprese e lo portò a morire ucciso da pirati giapponesi. La storia di John Davis, con la sua uccisione di uccelli ignari dell’uomo e la successiva nemesi che colpirà lui e il suo equipaggio, contribuirà ad ispirare, due secoli dopo, “La ballata del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge.
Chatwin continua il suo viaggio verso sud lungo la costa. Seguono altri racconti di grandi navigatori: anche Francis Drake e Magellano passarono per la Patagonia e forse persino il Calibano di Shakespeare ricorda un indigeno Teuhelche descritto da Antonio Pigafetta.
Anarchici, rivoltosi e stregoni
Il lungo capitolo 51 racconta un fatto dimenticato in Europa: una rivolta anarco – sindacalista scoppiata nel 1920, capeggiata dallo spagnolo Antonio Soto e i cui protagonisti furono i miti lavoratori dell’isola cilena di Chiloé, impiegati dai latifondisti inglesi e argentini della regione. Un generale argentino fu inviato a spegnerla. Antonio Soto si diede alla fuga, mentre 120 degli sventurati chilotes, che si erano arresi in cambio della promessa di aver salva la vita, furono fucilati. In Argentina i militari ebbero spesso la mano molto pesante.
Quando l’oppressione è senza speranza, non restano che le fantasticherie di poteri occulti, come nel voodoo haitiano; così il capitolo 52 è dedicato alle orripilanti leggende sulla Brujeria, un’associazione di potenti stregoni patagonici, dediti a ogni sorta di nefandezze.
Con il capitolo 53 Chatwin arriva alla Terra del Fuoco, siamo poco oltre la metà del libro e ci sarebbe ancora molto da dire.
Si parla di un anarchico e della sua terribile detenzione nel penitenziario di Ushuaia, di Darwin, degli sfortunati indigeni fuegini. Più si va avanti nel libro, più prevalgono le storie di mare, in una terra che infine diventa un insieme di isole e penisole, circondate da un mare cupo e minaccioso. Ma vi lascio alla scoperta di quel mondo dove tante avventure e sogni andarono a finire.
Conclusione
Il libro mi è piaciuto molto. Si legge d’un fiato e potrebbe dare l’impressione d’esser stato scritto di getto. Non è così, però; è invece un libro che non solo è basato su un lungo viaggio, in cui Chatwin si prese il tempo per conoscere le persone, ascoltare le loro storie e visitare luoghi remoti, ma è anche un libro in cui entrò molta ricerca e letture di opere poco note o del tutto dimenticate.
Molte vicende entrano in questo libro; alcune di esse sono tristi, inevitabilmente. Tuttavia il libro non trasmette tristezza; trasmette invece l’antica gioia del narrare e del tramandare storie che meritano d’essere conosciute.
Quindi non mi resta che augurarvi buon viaggio in compagnia di Bruce Chatwin, amici lettori!
Per chi fosse eventualmente interessato, ecco i link alle precedenti recensioni:
– 1) “Storie e leggende napoletane”, di Benedetto Croce;
– 2) “Il monaco nero in grigio dentro Varennes”, di Georges Dumézil;
– 3) “I Vangeli Gnostici”, a cura di Luigi Moraldi;
– 4) “La Cripta dei Cappuccini”, di Joseph Roth;
– 5) “Fuga da Bisanzio”, di Iosif Brodskij;
– 6) “Andrea” o “I ricongiunti”, di Hugo von Hofmannsthal;
– 7) “Lo stampo”, di Thomas Edward Lawrence;
– 8) “Un altro tempo”, di Wystan Hugh Auden;
– 9) “Fuga senza fine. Una storia vera”, di Joseph Roth;
– 11) “Mysterium iniquitatis”, di Sergio Quinzio;
– 12) “L’altra parte”, di Alfred Kubin;