di Giacomo Laviosa
Immediatamente dopo lo scontro navale avvenuto il 2 agosto 1964 nelle acque del Tonchino, il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Jonhson si appellò al Congresso per far approvare la “Risoluzione del Golfo del Tonchino”,
che lo autorizzava ad avviare le operazioni di guerra contro il Vietnam del Nord, senza dichiarare ufficialmente guerra.
Questa risoluzione legittimava il presidente americano «a prendere tutte le misure necessarie, incluso l’impiego delle forze armate, per assistere ogni stato membro del Southeast Asia Collective Defense Treaty che richieda assistenza in difesa della sua libera sovranità».
Secondo uno schema consolidato nello scacchiere della guerra fredda “libera sovranità” coincideva con il governo fantoccio di Ngo Dinh Diem sponsorizzato da Washington.
L’attenzione verso la penisola indocinese non era peraltro una novità per gli USA, visto che già nel ’61 con l’amministrazione Kennedy erano state inviate laggiù alcune centinaia di consiglieri militari. Il 27 luglio 1964 ne furono inviati altri 5000 nel Vietnam del Sud, portando il totale di forze statunitensi in Vietnam a 21000.
Il 9 febbraio 1965, il presidente USA Lyndon B. Johnson ordinò una serie di attacchi aerei di rappresaglia dopo parecchi attacchi su basi americane compiuti da unità vietcong. Aveva così inizio l’operazione Flaming Dart con quasi 150 missioni di volo.
Era solo la prima fase di un impegno militare che porterà gli Usa a mantenere fino a 541.000 soldati sul territorio vietnamita nel gennaio del 1969.