Scegli di credere. Intervista a Lionel Messi di Claudio Pollastri

MessiGentile concessione di Claudio Pollastri, intervista  pubblicata dal mensile Fogli novembre 2013. Si ringrazia per la collaborazione

Lionel Messi si racconta: i sogni, la vita, l’incontro con il papa, il pallone, la famiglia, l’impegno con i ragazzi e i bambini, l’Unicef, l’attività della LeoMessi Foundation

Scusi, Messi, ma perché non ha parlato col Papa come ha fatto Balotelli?

Balo è stato più furbo. Ha parlato col Papa per cinque minuti.

Non è riuscito a driblare le body-guard?

Erano in troppi.

Si è sentito per la prima volta sconfitto?

Non ho nemmeno tentato.

Com’era durante l’udienza?

Di pietra. Non riuscivo quasi a respirare.

Avrà vissuto altri momenti come questo?

No. E’ stata una giornata unica.

Che ricordo porterà del Papa?

Il suo sorriso. Il suo tono di voce. Le parole.

L’ha conquistata?

Sono sempre stato cattolico, anche se poco praticante.

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Va a Messa?

Poco. Ma Papa Francesco mi ha rafforzato nella fede. E poi…

E poi?

Papa Francesco si chiama Jorge, come mio padre.

 

Cosa fa suo padre?

Il falegname. Mia madre è casalinga.

Tutti italo-argentini?

Tutti. Anche mia moglie Antonella.

Cosa pensava davanti al Papa?

La mente era paralizzata. Lo guardavo ed ero commosso.

Se fosse riuscito a parlargli come ha fatto Balotelli?

Gli avrei portato i saluti della mia famiglia e chiesto una benedizione speciale per il mio piccolo Thiago di dieci mesi.

Ricorda quel 2 novembre 2012?

Ero l’uomo più felice della Terra. Avevo assistito al parto e avrei voluto raccontarlo al Papa.

Cos’altro avrebbe detto al Pontefice?

Di continuare il suo impegno per i più vulnerabili e per chi soffre. Soprattutto per i bambini che abbraccia appena può.

Anche lei si occupa di bambini.

Ho sempre amato i bambini.

Infatti collabora con l’Unicef.

Ero andato per l’Unicef ad Haiti dopo il terremoto.

Uno shock?

Al ritorno, è nata la LeoMessi Foundation.

Scopo?

Restituire ai bambini un po’ della fortuna che ho avuto.

Ha uno slogan?

Scegli di credere.

In cosa?

Che si può farcela.

Il suo ruolo?

L’ho capito dopo una visita in un ospedale per bambini.

Qual è?

Aiutarli moralmente con la mia presenza.

Funziona?

Il sorriso che mi regalano lo conferma ogni volta.

Cosa gli dice di particolare?

Non servono tante parole. Quando mi vedono scoprono la forza di continuare a lottare.

Una presenza terapeutica?

Gli do la carica interiore per sperare.

Leo MessiLei ne sa qualcosa.

Ho lottato molto per realizzare il mio sogno.

Lotta ancora?

Sempre. Ogni giorno.

Perché lo fa?

Per mettere la mia popolarità al servizio di chi è più debole.

Cosa riceve in cambio?

La certezza di avere aiutato un bambino malato a sperare nella guarigione.

Quanto tempo dedica alla Fondazione?

Quello che mi lascia il calcio. Ma l’impegno e l’energia sono gli stessi.

Hasta siempre, come diceva il Che?

So poco di Guevara anche se è nato a Rosario come me.

Però lo spirito è lo stesso.

Continuerò a lottare per rendere più felici i bambini.

Il progetto a cui tiene di più?

Una scuola di calcio a Rosario, nella mia città natale.

IMG_0818_webE in Spagna, dove vive?

A Barcellona abbiamo costruito un parco giochi nell’ospedale Vall de Hebrón.

Finanzia anche la ricerca?

Ci occupiamo della lotta contro il mal de chagas, una malattia tropicale.

 

Borse di studio?

Per i medici argentini che vengono a Barcellona a imparare a curare i tumori dei bambini.

Che bambino era?

Un po’ piccolino.

Già innamorato del calcio?

Come tutti in Argentina.

IMG_0926_webPrima partita?

A cinque anni contro quelli più grandi. Avevo fatto due gol.

L’aveva accompagnata suo padre?

No, mia nonna. Portava anche mio fratello Rodrigo.

 

Quello bravo?

Più di me. Un incidente gli ha fermato la carriera.

Anche lei, in quanto a sfortuna, non ha scherzato.

A 11 anni mi consideravano già molto bravo. Ma all’improvviso avevo smesso di crescere.

Colpa di un ormone, la somatotropina.

Il sogno di diventare un grande calciatore s’infrangeva.

Serviva una cura costosissima.

La mia famiglia era modesta, non povera, ma non poteva permettersi la cura della crescita.

Ed ecco il miracolo!

Arriva il direttore sportivo del Barcellona, mi vede giocare e mi fa firmare subito il contratto.

Il famoso contratto sul tovagliolo di carta.

Mai esistito. E’ una leggenda giornalistica.

Qual’era l’ingaggio?

Duemila euro.

La sua vita comunque cambia.

Avevo 13 anni. E da quel momento le mie giornate a Barcellona erano fatte di allenamenti e ospedale.

IMG_0778_webNostalgia della famiglia?

Era con me. Mi seguiva in tutto.

Tanto calcio, e la scuola?

Ho fatto le elementari e il primo anno delle medie a Rosario, gli altri in Spagna.

Ma non ha finito?

Mi mancano gli ultimi due anni delle superiori per andare all’università.

Un giorno li farà?

Magari quando smetto col calcio. Non riuscivo a fare le due cose assieme.

Intanto, è diventato il numero uno al mondo, meglio di Maradona.

Maradona è unico. Però il paragone mi lusinga.

E’ vero che gli unici libri che legge sono sulla vita del Pibe?

Non sono molto amico dei libri.

Cos’altro l’ha letto?

Cent’anni di solitudine. Gabriel García Márquez resta una guida.

I libri non li legge però li fa.

Domenico Dolce mi ha convinto a fare un libro di fotografie. Il ricavato andrà in beneficenza.

Con chi si è consigliato?

In famiglia. E con Maradona.

Siete molto amici?

Ci sentiamo spesso. Mi dà dei consigli.

Beh, su certi argomenti non è un buon maestro.

So dove sbaglia e glielo dico in faccia.

Segue i suoi consigli anche sulla famiglia?

Ho sposato la ragazza che avevo incontrato a sei anni. In questo sono molto diverso da Diego.

Che figlio è?

Sono molto attaccato ai miei genitori. Che mi trattano ancora come un bambino.

Dove abitano?

Mia madre non ha mai voluto lasciare la sua casa al Barrio dove sono nato.

Un giorno vi tornerà?

Mi piacerebbe. Non l’ho mai dimenticato.

In casa parlavate italiano?

No. Però mio padre e mia madre qualche volta ricordavano i loro paesi d’origine, in Italia.

Cucina italiana o argentina?

Metà e metà.

Piatto preferito?

Le milanesas. Però devo stare attento. Sono sempre a dieta.

Che papà è?

Premuroso e apprensivo. Cambio i pannolini a Thiago, gli faccio il bagnetto.

A casa, riesce a staccare col calcio?

Mi costringe mia moglie. Non  capisce il calcio e non lo vuole nemmeno guardare in tv.

Cosa guardate?

Thriller e storie d’amore.

Si commuove?

Qualche volta.

Piange?

Quasi mai.

L’ultima volta?

Quando è nato Thiago dopo un parto difficile.

Lacrime di gioia. E quelle di dolore?

Quando è morta mia nonna.

Quella che l’accompagnava alle partite?

Sì. A lei dedico i miei gol.

Qualche dedica anche ai bambini che assiste?

Il mio pensiero è sempre con loro.

Lei è un esempio per molti giovani.

Me ne rendo conto quando vado per strada.

Si sente prigioniero del successo?

Un po’. Ma cerco di dare il buon esempio ai giovani.

Come?

Dimostrando che i soldi non sono tutto.

Cosa conta?

La famiglia. L’onestà. La fede.

E la casa?

Semplice. Confortevole. Normale.

Niente pose da divo?

Non sono il tipo.

A questo punto, ha realizzato tutti i suoi sogni?

Manca sempre l’ultimo.

Quale?

Vincere i Mondiali in Brasile.

A chi dedicherebbe la vittoria?

A Papa Francesco. Così potrò parlargli.

Come Balotelli?

Molto di più.

Rivista FOGLI numero 399 NOVEMBRE 2013

 

 

 

 

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